martedì 3 giugno 2014

Quando una crisi non è un'opportunità: la coincidenza con ciò che si vorrebbe superare

Contributo del Prof. Federico Sollazzo al Ciclo di incontri "Il tempo del conflitto"

… non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca
M. Heidegger
Federico Sollazzo

Ritenere – come da più parti avviene, spesso anche a prezzo di inflazionamenti banalizzanti del discorso – che oggi si viva in un sistema di manipolatoria eterodirezione della vita, di predeterminata produzione della stessa, significa ritenere che vi sia l’esercizio di una pressione sull’individuo che gli impedisce di poter essere autodeterminato, libero, autentico. Ma ciò significa ritenere anche – ed è questo che vorrei qui problematizzare – che tale individualità sia ancora, almeno potenzialmente, eccedente rispetto alla situazione data, poiché proprio nello scarto dal già dato si colloca la sua autonomia; è ancora possibile affermare questo scenario? O siamo oggi in una nuova fase di eterodeterminazione dell’individualità in cui non si dà più lo scarto tra questa e il sistema che la contiene? In tali termini non è più necessaria alcuna operazione di colonizzazione dell'individualità, di produzione della soggettività, poiché questa già aderisce completamente al sistema in cui è posta.
Innanzitutto vorrei prevenire alcuni possibili fraintendimenti. Sollevando il problema dell’eterodeterminazione non intendo né avallare teorie complottiste (buone per chi desidera spiegazioni fumettistiche della realtà), né intendere che l’optimum sia l’autonomia assoluta, la totale libertà da tutto e tutti, questa è infatti una condizione esistenziale, oltre che impossibile poiché la vita è sempre condizionata da ed in contingenze specifiche, non auspicabile in quanto indica verso l’eliminazione del mondo (Benjamin asseriva fosse una posizione “di destra”),.
Con eterodirezione intendo invece una determinazione della vita che non viene lasciata libera di espandersi autonomamente – fermo restando che un’autodeterminazione si esercita sempre dentro ineludibili contingenze relazionali che la influenzano – ma che è indirizzata, vincolata verso forme e modalità prestabilite.
Terminologicamente, va inoltre notato come per condurre tale argomentazione sia preferibile l’uso dell’articolo indeterminativo: unaautodeterminazione. Questa infatti non è mai l’unica possibile ma sempre una possibile autodeterminazione, dato che la sua forma (individuale e collettiva) è – dovrebbe essere; lo è ancora? – il risultato di una scelta che si esercita di volta in volta e non un assoluto da replicare eternamente uguale a se stesso.
Tornando alla eterodeterminazione così come qui la intendo, la si può allora caratterizzare come l’esito influente dello spirito dei tempi dentro cui, volenti o nolenti, consapevoli o meno, ci si trova a vivere; heideggerianamente come il portato dell’Essere, che infatti non è semplicemente congiunto al- ma è tempo.
Se questo è il quadro di riferimento, dobbiamo allora chiederci chi sia l’Essere della nostra epoca, il soggetto che determina la vita di chi vive in questo tempo. E, a dispetto delle semplificazioni che mass-media e gruppi di potere continuamente propagandano, tale soggetto non lo si troverà né nella dimensione politica né in quella economica. Inoltre, non si tratta neanche di un soggetto identificabile. Esso è infatti impersonale. È la razionalità strumentale – come hanno focalizzato per primi, ciascuno nei propri termini, gli autori della prima Scuola di Francoforte, Adorno, Horkhemier e Marcuse, ma anche Benjamin e Pasolini e ovviamente Heidegger, e si badi che questo tema era già all’opera all’interno del nazismo se Arendt descrive Eichmann non come un mostro ma come un egregio professionista, un perfetto funzionario funzionale al suo sistema di riferimento, proprio come l’odierno manager.
L’avvento della razionalità strumentale, evidentemente un precipitato dello sviluppo tecnologico da cui non siamo stati in grado di impermeabilizzarci, offre una conferma (nefasta) della hegeliana dialettica servo-padrone, che respinge ogni Marx reinassance. Infatti, l’apice dello sviluppo del capitale è determinato dal fatto di essere il capitale stesso l’Essere: il capitale schiavizza la tecnica per potersi incrementare e moltiplicare con efficienza, il capitale è il padrone, la tecnica il servo. Un servo che poi (peraltro in tempi molto rapidi) hegelianamente prende il sopravvento sino a diventare il padrone, heideggerianamente l’Essere, e il capitale il servo. Basti pensare al fatto che oggi, senza un adeguato supporto tecnologico, il capitale non si muove. Ecco perché la sola critica dell’economia politica non è più in grado di restituire la nostra epoca. È oggi indispensabile una critica della razionalità strumentale.
Bene, a proposito di quest’ultima si è detto che è impersonale e al tempo stesso dominante. E tuttavia è impersonale se la consideriamo come una forma di razionalità in sé conclusa, ma non lo è se consideriamo i suoi rappresentati e agenti, gli oggetti tecnologici. Sono questi che, circondandoci, continuamente ripetono i suoi principi. Trova così conferma sia la teoria pasoliniana della pedagogia delle cose che la concezione foucaultiana della microfisica del potere, inteso come rete di relazioni. Si può così ora specificare meglio la natura di questa eterodeterminazione: essa dà luogo ad un controllo eteronomo non solo nella misura in cui preorienta atteggiamenti, comportamenti, ragionamenti, bisogni e desideri – repetita iuvant: non semplicemente interagisce con-, ma pre-orienta l’uomo, ergo produce individui – ma anche e soprattutto nella misura in cui l’uomo non ha più alcun controllo su tale preorientamento, coincidendo ormai la sua individualità con la razionalità strumentale; egli quindi non è più il soggetto della storia, del tempo che abita (Galimberti, Severino) ma, in un rovesciamento hegeliano, l’esecutore del nuovo Essere (nonostante, o meglio proprio in virtù del fatto che non problematizzi tale questione). La razionalità strumentale, calcolante, efficientista esercita dunque un indirizzamento eteronomo sia in un senso verticale (dominio) che orizzontale (relazioni), la sua onnipervasività è così completa. La sua definitività sta nel fatto che, a differenza delle precedenti fasi della civilizzazione occidentale, essa produce rapporti sociali immodificabili, dunque, antropologicamente, un irreversibile nuovo tipo d’uomo, che non ha più le stesse caratteristiche del precedente e che non occupa più la stessa posizione del precedente – da empatico ad anaffettivo, da soggetto della storia ad appendice del nuovo soggetto della storia. Non si tratta quindi di una fine della storia tout court (Fukuyama), ma della fine di una certa storia, quella di un certo vivente e dell’inizio di una certa altra storia, di una “Dopostoria” (Pasolini).
A scanso di equivoci, non si tratta qui certamente di essere tecnofobi né di aspirare al ritorno a condizioni di vita pre- o paleo-tecnologiche, ma di fissare con lucidità quel certo tipo di relazione che intratteniamo con la razionalità tecnologica e che ne fa l’Essere del nostro tempo. Tale relazione è qui sotto accusa, ovvero, il soggetto ad essa assuefatto che la invera lasciandola accadere, e non la tecnologia in sé.
Ed eccola, brevemente affrescata, la forma di eterodirezione cui siamo assoggettati, che reifica gli individui sotto forma di clichémisurabili e interscambiabili, esecutori di funzioni (Ghelen) non solo quando svolgono un lavoro – sulla cui natura e scopi finali si è del tutto deresponsabilizzati: uno strumento esegue e basta – ma anche ed a partire dalla complessiva personalità, che altro non è che l’indossare lo stereotipo di un personaggio: la madre e donna, la donna in carriera, il maschio atletico, il capitano d’industria (prima) o il manager rampante (poi), l’intellettuale, nelle varianti del serioso e del faceto, la giovane coppia che risolverà ogni vicissitudine con l’amore, ecc., il tutto integrato con una modificazione architettonico-urbanistica finalizzata all’esposizione di tali modelli, con palazzi costituiti da vetrate e open space interni.
Ora – e questo è il punto dirimente – tali condizionamenti sono stati introiettati al punto tale che ormai, con un paradosso che è solo apparente, non si può più neanche più parlare di introiezione, perché essa presupporrebbe un’interiorità individuale distinta e autonoma dal mondo esterno, cosa che oggi non è, essendosi realizzata la coincidenza dell’individualità con le condizioni della propria eterodeterminazione (ed ecco spiegato il titolo di questo breve intervento). L’eterodirezione scompare sotto la forma di uno “spontaneo” modo di vivere.
Prova ne sia il fatto che oggi la richiesta più “sovversiva” che viene espressa è quella di non essere disoccupati e che nel lavoro siano contemplati i diritti sindacali. Se tale richiesta non è associata alla comprensione dello scenario in cui è dato vivere e alla tensione al trascendimento di questo, altro non è che la richiesta di panem condito con un po’ di circenses. L’esito di tale dinamica – che continua a sfuggire a chi professando un illuminismo, un liberalismo, un progressismo astorico, non si avvede di come essi siano oggi diventati vettori di conformismo – è che richieste originariamente progressive, perché dirompenti in statu quo ante, vengono codificate in diritti che veicolano conformismo, sotto forma di adattamento in statu quo nunc. In un regime di conformismo, la realizzazione di diritti che consentono l’accesso a tale regime non fa altro che promuovere chi li ottiene al rango di “conformato”. A conferma di ciò, si osservi come la lotta, oggi tanto à la page, per i diritti dei non eterosessuali – la cui discriminazione è un atto di barbarie, ma non è questo il punto dirimente –, sia divenuta nient’altro che un modo per annettere anch’essi all’ordine stabilito delle cose, con la peculiarità che sono essi stessi, proprio come Mamma Roma di Pasolini, a supplicare per loro stessa Anschluss.
Declinando la questione in termini politici, si osserva che il segno che garantirebbe della bontà della società esistente è il suo (presunto, poiché solo formale) pluralismo. La pluralità dei partiti politici, dei mezzi d’informazione, dei comportamenti possibili, delle offerte d’intrattenimento, costituisce il mantra delle democrazie occidentali liberali con il quale si vuole affermare la loro radicale discontinuità rispetto ai totalitarismi storici. Peccato che ci si dimentichi sempre di osservare come il pluralismo misuri la quantità di un qualcosa, non la sua natura, non la sua qualità. Se si osservasse quest’ultima, invece, non sarebbe difficile notare come le alternative pluralistiche offerte dall’occidente liberale altro non sono che una lista cliché, dunque un pluralismo meramente formale e nominale che copre –  neanche tanto bene, eppure in maniera bastante per diventare ideologia – un’unidemensionalità sostanziale. Ne deriva che questa specie di cultura democratica favorisce l’eteronomia sotto la specie dell’autonomia, e che un tale tipo di pluralismo in realtà milita contro l’autodeterminazione. Ecco perché appare necessario traslare il concetto di totalitarismo da un piano storico ad uno filosofico, rendendolo una categoria concettuale con cui si descrive (indipendentemente dalle sue forme storiche) una determinazione eteronoma della presunta autodeterminazione, presunta, perché evidentemente in questi termini non è più tale.
Certamente si apre qui il problema di se e come possa allora esercitarsi un’autodeterminazione – ed anche il problema del se esista una possibile autodeterminazione o se invece, secondo la provocazione spinoziana di Zizek, “siamo liberi solo nella misura in cui non riusciamo a cogliere le cause che ci determinano”.
Varie risposte sono state date, ognuna nei suoi propri termini: il dialogo solitario con se stessi, con il proprio daimon (Socrate), il giudizio di fronte al tribunale della propria ragione (illuminismo) e sensibilità (romanticismo), l’etica dell’epimeleia seauton, della cura di sé (Foucault), l’eccedenza dal già dato, che promette la bonheur (Marcuse), la ricerca dell’unicità e dell’irripetibilità. Tutti queste prospettive sono puntati in direzione della comprensione/costruzione di se stessi, ergo dell’autodeterminazione. E tuttavia mi sembra che esse condividano un medesimo rischio (del quale, a dire il vero, mi sembrano ben consapevoli Marcuse e Pasolini, che infatti hanno portato a tema la questione del “rifiuto”): la mancata considerazione di cosa accade quando tali progetti etici sono condotti con “materiale da costruzione” viziato senza, peraltro, che il costruttore se ne avveda – come accade proprio nella nostra epoca, ad opera della razionalità tecnologica che predetermina il campo e gli strumenti del ragionare. Ma, a conferma del fatto che qui non si tratta certo di essere tecnofobi, è da affermare con forza come questo problema si presenti quale che sia il cosiddetto spirito dei tempi, sebbene nella sua connotazione odierna abbia raggiunto, a causa di una certa relazione che intratteniamo con questo, il massimo livello di pervasività. Come uscire da questa impasse?
Esercitando il negativo (il rifiuto, il no). Infatti, perseguendo la realizzazione di un’individualità, di una soggettività, di un’alterità in termini affermativi, si è costantemente esposti al rischio di continuare a muoversi dentro il perimetro dell’ordine stabilito delle cose, che ha ormai assorbito anche le figure della differenza – si pensi al cliché del ribelle o del rivoluzionario, ridotti a personaggi (accessoriati di tutto: dall’abbigliamento al modo di portare barba e capelli, dal linguaggio ai consumi, dai divertimenti alle idee da contestazione/conversazione), maschere che devono semplicemente essere indossate. Diversamente, con un movimento di sottrazione dal, con una dinamica di rifiuto del paradigma affermativo vigente, qualsiasi esso sia, si accede ad un territorio di pura negatività, unica dimensione in cui è possibile generare qualcosa di originale e autentico. Per evitare i cliché delle differenze ormai integrate al sistema, e praticare una negatività che sia effettivamente tale, l’atteggiamento “etico-esistenziale” da adottare verso l’esistente lo definirei come quello di una consapevole indifferenza.
Certo, anche in un simile scenario nulla garantisce che quel che si sia creato per tal via non venga poi ricondotto all’ordine stabilito delle cose, riducendolo in un cliché – basti vedere le iconizzazioni standardizzanti di intellettuali che hanno invece sempre combattuto contro dinamiche di omologazione massificante, di produzione seriale di soggettività, da Pasolini a Foucault – ma ciò non annulla la validità di questo percorso, ma testimonia di come, da un lato, questa traiettoria sia ripercorribile da ogni generazione, anzi da ogni nuovo nato e, dall’altro, di come la dimensione dirimente da cui tutto, nel bene e nel male, prende corpo sia quella dell’individuo.

FONTE liberaparola.eu 

lunedì 12 maggio 2014

NOTE SULLA MODERNITA'

Di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

(Si pubblica di seguito il testo della lettera inviata alla Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche di Certaldo in occasione del conferimento, in data 20/05/2012, del Premio Speciale per la sezione Saggio Filosofico al Premio Nazionale di Filosofia 2012, al volume: Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, Presentazione di M. T. Pansera, Aracne, Roma 2011)

Trovandomi all’estero, come il Presidente dell’ “Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche” dott. Mario Guarna sa, non mi è possibile partecipare alla cerimonia di premiazione di oggi, del Premio Nazionale di Filosofia. Mi trovo infatti al momento presso l’Università di Szeged (Ungheria) dove lavoro dal 2010. Il fatto che io lavori all’estero non per libera scelta, pur trovandomi bene, ma a seguito della scelta forzata derivante dal non aver potuto accedere ad analoga posizione in Italia, ed il fatto che simili condizioni siano condivise da non pochi miei più o meno giovani colleghi in pressoché tutti i campi scientifici, forse meriterebbe già di per sé una riflessione. In questa festosa circostanza però, mi limito ad inviare questa breve comunicazione, letta dal dott. Matteo Sollazzo, mio fratello e per l’occasione mio delegato, per partecipare, sia pure indirettamente, alla consegna del Premio Speciale per la sezione Saggio Filosofico all’edizione 2012 del Premio Nazionale di Filosofia, al mio volume Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, confidando che in futuro vi possa essere occasione per una diretta e personale collaborazione con la ANPF.
Il mio ringraziamento per il riconoscimento che mi è stato voluto dare nasce non solo dal premio in sé, ma anche dal fatto che tale riconoscimento contribuisce a dare maggiore eco a quello che è il proposito di fondo del volume stesso.
In epoca moderna assistiamo infatti all’intensificarsi del processo, in atto già da prima, di restringimento del significato delle parole, che diventano così didascalie. Le parole perdono sia la possibilità di contenere una pluralità di significati sia quella di essere metafore che altri possibili ne dischiudono, e vengono ridotte a definizioni il cui significato è uno e uno soltanto, univoco e seccamente immediato, così da favorirne l’operatività funzionale a chi propone/impone quella definizione. Se il senso della filosofia è quello di problematizzare ciò che appare come ovvio, allora sono oggi da porre sotto l’occhio della filosofia termini quali totalitarismo, democrazia, etica e pubblico, termini attorno ai quali, più di altri, ruota la costruzione della società e che pertanto sono terra di conquista, di colonizzazione e monopolizzazione da parte di interessi e poteri specifici; il fatto che possa sembrare superfluo e inutile problematizzare termini sul cui significato (didascalico e univoco) siamo ormai tutti d’accordo (più per assuefazione che per scelta consapevole), conferma invece quanto sia necessario portare avanti questa problematizzazione di termini (apparentemente) ovvi. Operazione che nel volume ho cercato di fare attraverso tre grandi ambiti argomentativi quali la Filosofia Morale, problematizzazione del comportamento, la Filosofia Politica, problematizzazione delle norme, e l’Etica, problematizzazione dei valori.
Per quanto la dimensione storica sia sempre importante, la prospettiva in cui mi muovo nel volume è fondamentalmente filosofica, ovvero, finalizzata ad analizzare quale uso è stato fatto di questi termini nella modernità (a larghe righe, dall’Illuminismo ad oggi), perché ne è stato fatto un certo uso, quali conseguenze esso ha determinato e, prevedibilmente, porterà.
Una delle osservazioni più rilevanti a cui si può arrivare tramite questo approccio, è quella di riscontrare come oggi si viva all’interno di un complesso e articolato sistema di controllo supportato da una molteplicità di vettori – il più significativo dei quali è colui stesso che ne è vittima –, che si vanta di un pluralismo che è però mera maschera della sua unidimensionalità. In altre parole, benché le grandi ideologie politiche del Novecento siano crollate, questo non significa che l’ideologia in quanto tale sia venuta meno, al contrario, essa si è aggiornata e quindi rafforzata, scartando (nella forma dell’assorbimento) le sue versioni obsolete ed adeguandosi allo scenario contemporaneo (che essa stessa disegna). Siamo così passati dall’ideologia politica, all’ideologia economica e, oggi, all’ideologia tecnologica, che a ben vedere è presente in nuce in tutte le precedenti. Ciò che rende possibile un sistema ideologico è la presenza di un mito, perché laddove c’è un mito, un telos, c’è uno scopo superiore, e laddove c’è uno scopo superiore, che orienta e dispone la vita, non ci sono persone (uniche e irripetibili) ma esecutori, funzionari (seriali e sostituibili). Come ho cercato di argomentare nel volume, ci troviamo oggi in un’epoca di transizione che, a differenza delle precedenti, non segna un semplice passaggio storico ma una svolta epocale, poiché l’ideologia contemporanea, e mi riferisco qui alla razionalità tecnologica, determina per la prima volta un cambiamento radicale nella struttura biologica ed emozionale dell’uomo, portando così a compimento quella mutazione antropologica avviata nel secolo scorso. L’uomo quindi, ammesso che lo si possa ancora definire tale essendo al tempo stesso un post- e un non-uomo rispetto al precedente, per la prima volta non è più il soggetto della storia ma un semplice accessorio, in qualità di funzionario, del nuovo protagonista della storia: la tecnologia (la cui elasticità le permette di continuare ad avanzare insinuandosi in ogni spazio, fisico ed esistenziale).
Qualsiasi sarà la risposta che daremo a questo scenario, essa dipenderà dalla nostra comprensione dello scenario stesso. In accordo con la tesi arendtiana sulla banalità del male, il peggior criminale è colui che accetta ciò che viene considerato ovvio senza porsi domande a riguardo. Una conclusione sulla quale meditare, per non ridurre le idee a didascalie e non ritenere la problematizzazione dell’ovvio come un divertissement o un gioco accademico ma una necessità e una responsabilità che riguarda tutti e ciascuno. E si potrebbe cominciare, magari, dalle parole totalitarismo, democrazia, etica.

Dott. Federico Sollazzo

venerdì 2 maggio 2014

IL MOSAICO DEL BUON SENSO


È difficile affrontare, in una sola opera, tutto lo scibile umano, trattando in particolar modo le emozioni, le attitudini ed i comportamenti sociali. Al contrario, “Il mosaico del buon senso” offre una panoramica ben articolata e strutturata su argomenti di vario genere, illustrandoli in maniera spesso provocatoria e senza peli sulla lingua.
In questa miscellanea così sapientemente architettata, veniamo catapultati in un mondo che ci sembra di conoscere così bene – quello dell’essere umano – eppure, pagina dopo pagina, quelle poche certezze decadono inesorabilmente, di fronte ad un’analisi elegante e verace.
L’autore, l’illustre professore Alessandro Bertirotti, con la sua penna pungente, dipinge il quadro di un’umanità spesso dilaniata tra ciò che è e ciò che vuole apparire: per natura, noi uomini siamo socievoli, portati a costruire legami duraturi e ad intessere relazioni empatiche con i nostri simili. Ma la realtà di tutti i giorni, sovente, smentisce tali caratteristiche. Forse perché l’uomo del III millennio ha edificato il suo essere più sulla sabbia, che sulla roccia; ha preferito “vendersi” a dei cliché sociali di basso profilo, invece di aderire alla sua più profonda moralità.
“Il mosaico del buon senso” ci parla della fatica di essere uomini e donne veri in contrasto alla cultura dell’”effimero”, di rispondere alle nostre più intime necessità, dando la priorità ai fondanti valori della vita.
Veniamo, così, messi davanti a questioni “spinose”, di grandissima attualità: la sessualità, le emozioni, la condotta sociale, la famiglia, la politica… tutti temi largamente dibattuti e che conosciamo bene (o almeno così ci sembra!).
Ciò che più colpisce, in questo libro tanto breve quanto intenso, è quello che lascia dopo averlo letto: appena si termina un paragrafo, il lettore si sofferma a riflettere su quelle parole; è come costretto a fare i conti con la sua visione del mondo e perfino di se stesso, a mettere in gioco le sue credenze e – perché no – a riformularle alla luce di quanto appreso. Queste preziose pagine non lasciano indifferenti. Sicuramente, si potranno incontrare punti di vista diversi, ma un pubblico attento e curioso troverà molte chiavi di lettura, interessanti e profonde.
L’autore non vuole indorare la pillola: ci trasmette quanto siano importanti i legami familiari, quanto la scuola e le istituzioni debbano collaborare affinché si crei una società consapevole ed una nuova generazione libera, ma responsabile (e noi, oggi, sappiamo quanto sia essenziale avere dei punti di riferimento forti e stabili). Ci fa comprendere quanto sia fondamentale non solo saper godere dei momenti lieti che la vita ci offre, ma anche e soprattutto saper affrontare i momenti bui e dolorosi, perché   è proprio in quei frangenti che esce il meglio di una persona, con tutta la sua forza e capacità di risollevarsi (“Ci sono sofferenze che scavano nella persona come i buchi di un flauto, e la voce dello spirito ne esce melodiosa” – V. Brancati). Ci proietta in una dimensione fatta di connessioni cerebrali e di avvertimenti dati dal nostro cervello, perché le prime avvisaglie di sentimenti positivi o negativi provengono proprio dal nostro sistema neuronale. Ci sottolinea quanto sia vero il famoso motto “l’unione fa la forza”: in un mondo che sembra andare verso l’autodistruzione, la collaborazione e l’accettazione reciproca sono le chiavi di svolta per un futuro migliore. Ci mostra come ognuno di noi sia diverso, nella sua unicità, a partire dalla dicotomia uomo/donna, ma è da queste macro-differenze che si può costruire una società sì variegata, però sempre cooperativa ed integrata con le esigenze di ciascuno.
Ed insieme a queste realtà “favorevoli”, troviamo affiancate quelle più oscure e torbide, che spesso si annidano nell’animo umano: la tendenza di alcuni individui alla violenza, allo stupro, allo sfruttamento della prostituzione o alla pedofilia… Verità scomode e dolorose, che non vorremmo mai incontrare, ma che, ahinoi, fanno parte di questa intricata umanità.
In conclusione, dopo aver dato una personale opinione, che non vuole essere esaustiva, ma solo offrire piccoli flash, affinché altri si accostino a questa lettura, mi permetto di affermare che “Il mosaico del buon senso” è uno dei libri più difficili che abbia mai letto, non tanto nel registro stilistico o nel lessico utilizzati (anzi, da questo punto di vista, l’ho trovato molto comprensibile ed alla portata di tutti, anche di chi non ha dimestichezza con l’antropologia della mente – materia per eccellenza del nostro brillante autore): è difficile perché obbliga ad interrogarsi approfonditamente su importanti tematiche. E, si sa, mettersi in gioco non è mai cosa semplice. Perché se ne può uscire “sconfitti”. Ma credo che, in questo caso, non si tratti di sconfitta, quanto piuttosto di “arricchimento”: solo un lettore dalla mente aperta, con una buona dose di umiltà e voglia di intraprendere nuovi percorsi intellettuali, può accostarsi con piacere ed interesse all’illuminante “Il mosaico della mente”.

Chiara Serreli.




mercoledì 5 marzo 2014

Sulla Psicoterapia e sulla Consulenza Filosofica

Il 1879 è un anno importante per la psicologia, perché da quel momento diventa scienza staccandosi completamente dalla filosofia ed iniziando ad utilizzare gli strumenti e soprattutto il linguaggio scientifico. Tutto ciò è stato possibile grazie a W. Wundt che fonda a Lipsia il primo laboratorio scientifico, dove analizza i processi mentali con la tecnica dei tempi di reazione.
Questo approccio venne però aspramente criticato da J.B.Watson, proprio in nome del rigore tipico delle scienze, secondo il quale i fatti di coscienza studiati da Wundt sono solo il travestimento del vecchio concetto di “anima”,  quindi privo di valore scientifico. La psicologia, secondo Watson, per dirsi scienza ed essere oggettiva deve abbandonare i concetti di “psiche” e di “mente” e attenersi solo al comportamento direttamente osservabile.
Ma Watson non sapeva quello che oggi la fisica ci dice e che cioè l’atto di osservare influisce sull’oggetto dell’osservazione; l’osservatore è un elemento attivo all’interno del processo studiato, per cui anche quell’oggettività a cui Watson pensava di essere arrivato è oggi messa in discussione da quelle stesse scienze a cui la psicologia tenta di assomigliare.
Poco dopo nasce la psicoanalisi e con essa le terapie delle sofferenze mentali attraverso il colloquio.
Il suo fondatore, S. Freud, scompose l’apparato psichico in Preconscio, Coscienza e Inconscio nella Prima Topica, e successivamente, nella Seconda Topica, in Es, Io e Super Io, ma anche questo non ebbe nulla di scientifico in quanto, ci ricorda K. Jaspers, suddividendo la psiche in strutture “non si fa scienza ma si fantastica con sembianze scientifiche in modo del tutto non scientifico”.
Se dunque è stato ed è tutt'ora problematico per la psicologia porsi come scienza, lo è altrettanto l'uso di alcuni termini come quello di Psicoterapia.
Terapia è una parola che richiama ad una tecnica che, indipendentemente da chi la applica, raggiunge il suo scopo. Questo però è adatto ad un approccio medico/scientifico, ma non alla psicologia che per sua natura non può prescindere dal soggetto che applica la tecnica, poiché è proprio lui che “fa” psicologia. Ciò inoltre crea l'opinione che sia la tecnica o la teoria di riferimento a “guarire” in qualche modo i nostri malesseri, ma non è così: quello che aiuta i nostri stati d'animo è la relazione, la possibilità di condividere e di dar voce a certe emozioni rimaste incastonate in qualche angolo perduto della nostra anima, cosa che l’uomo ha sempre saputo fin da quando Platone, nel Carmide, fa dire a Socrate che ciò che cura è l’impiego di  “certi carmi magici, che sono le parole appropriate”.  Diversamente infatti non si potrebbe capire come mai teorie e tecniche anche radicalmente diverse tra loro possano raggiungere risultati simili in termini di benessere, come documenta G.O. Gabbard.
Il parlare è dunque umano, non scientifico e la tecnica senza empatia con la psicologo è inconsistente.  V’è l’illusione che quanto più uno psicologo abbia studiato, abbia fatto analisi su di sé tanto più sia in grado di comprendere il mondo interiore dell’altro: ma la vita interiore dell’altro è insondabile dall’esterno e non la si avvicina con lo studio, ma con l’empatia, che non si può imparare in nessuna università. Chissà se forse è proprio il difficile e complesso iter per diventare psicologo che fa dimenticare questa evidenza, ribadita anche da C. G. Jung che parla ai suoi pazienti “come un semplice essere umano parla con un altro”  consapevole che nessuna emozione ci è estranea poiché ogni cosa, comprese le patologie dalla schizofrenia alla depressione, esiste già dentro ciascuno, come ricorda E. Fromm.
Se dunque la psicologia si trova nell'impossibilità di studiare scientificamente la “Psiche” come può parlare di una terapia della psiche? Ecco perché è molto ambiguo e fuorviante l'utilizzo del termine “Psicoterapia”.
Sul parlare umano si basa invece la Consulenza Filosofica, che si pone come alternativa alla Psicoterapia, a cui non interessa porsi come scienza e per questo può liberarsi da tutta quella terminologia scientifica a cui invece la psicologia deve sottostare. La Consulenza Filosofica è ben consapevole del fatto che i nostri malesseri sono storici, cioè cambiano e mutano in base al contesto storico in cui essi si manifestano e quindi cambiano e mutano in base al linguaggio usato per descriverli. Ecco perché essa può parlare dei nostri disagi non come ansia, panico, paura, ma come perdita della propria strada, come smarrimento del senso della propria vita che, ad un certo momento, può adombrare l'esistenza di ognuno. La psicologia purtroppo, accorpandosi sempre di più alle scienze e alla medicina, ha finito per dimenticare il linguaggio umano su cui essa si fonda.
E così, ciò che la psicologia ha rimosso è stato preso dalla Consulenza Filosofica che sembra non aver mai dimenticato ciò che disse uno dei padri della psicoanalisi, Carl Gustav Jung, ovvero che la psicologia deve abolirsi come scienza, perché solo abolendosi come scienza raggiunge il suo scopo scientifico.


Stefano Coletta






martedì 4 febbraio 2014

Dal "mito" alla vita

Esistono in tutti gli esseri umani due fondamentali tipi di atteggiamenti: un primo, definito mentale e un secondo definitivo comportamentale.
L'atteggiamento mentale è una disposizione della nostra mente a pensare le cose del mondo in un particolare modo, e dunque interpretare la realtà secondo quel modo specifico di vedere le cose. In seguito all'adozione di questo atteggiamento, ogni essere umano è indotto a compiere le sue esperienze nel mondo e leggerle, ossia comprenderle, attribuendo ad esse un significato personale, ma nello stesso tempo culturale.
L'atteggiamento comportamentale è anch'esso una disposizione della mente a pensare le cose della realtà, ma si riferisce prevalentemente al pensiero sulle azioni, sulle condotte da adottare per il raggiungimento dei propri scopi. Parliamo cioè di quelle azioni che ci permettono di raggiungere obiettivi, adottando la condotta necessaria.

Facciamo due esempi per meglio chiarire la differenza che esiste tra questi due tipi di atteggiamenti.
Si prenda un individuo al quale piace molto viaggiare e che viaggia quasi sempre in auto, oppure in aereo. Ogni volta chedeve programmare un viaggio, magari assieme ad altre persone, egli pensa ad organizzare gli spostamenti da un luogo ad un altro utilizzando questi due mezzi di locomozione. Poiché essi rappresentano il suo modo di muoversi nel mondo,non chiederà quasi mai ad eventuali altri partecipanti al viaggio se desiderano utilizzare l'auto, l'aereo oppure preferiscano andare in treno ed in autobus. Per lui, ossia secondo il suo atteggiamento mentale verso il concetto di viaggio, gli spostamenti si fanno con l'auto e l'aereo.
Consideriamo ora, sempre come esempio, un'altra persona che di fronte allo stesso progetto, fare un viaggio, adotti un atteggiamento comportamentale: egli chiederà, innanzi tutto e a tutte le persone coinvolte, con quali mezzi preferiscano muoversi, prima ancora di pensare alla direzione verso la quale andare. Questo è un atteggiamento comportamentale,perché deriva da un atteggiamento mentale a monte che è quello di informarsi sempre sulle condizioni di benessere nelle quali devono stare le persone nelle loro attività, e che avrà come conseguenza organizzare il viaggio in uno stato di benessere per tutti i partecipanti. Il suo atteggiamento comportamentale, si dirige dunque verso quell'azione particolare del viaggio che sta programmando.
Sulla base di queste riflessioni è evidente che i due atteggiamenti si trovano spesso assai vicini fra loro, specialmente nel funzionamento della mente nella quotidianità, e non è facile identificare, se non ad un buon livello di autoconsapevolezza, i due tipi.
Possiamo però affermare che questi due tipi di atteggiamenti fanno entrambi parte della mente di ciascuno di noi. Ogni essere umano si trova a dover prendere decisioni circa i propri scopi e condotte, attuando così le relative azioni, unitamente ad azioni che si ripetono senza che la volontà individuale abbia un ruolo effettivo ed importante. In sostanza, i nostri atteggiamenti mentali derivano dal nostro vivere assieme agli altri, in un gruppoall'interno di una cultura, e si sono sedimentati nella memoria di quel gruppo attraverso molti atti che definiamo spesso con il termine di tradizione.
Per esempio, una persona che si trova a crescere, malgrado le proprie intenzioni e volontà, in un ambiente nel quale lediverse forme di violenza sono all'ordine del giorno, al di là della propria (contraria) volontà contraria verso questi atteggiamenti, è assai difficile che possa modificare gli atteggiamenti mentali e comportamentali dell'ambiente. Può invece cambiare i propri atteggiamenti comportamentali, decidendo lui stesso di non adottare forme di relazioni basate su violenza oppure soprusi. Vi è comunque in questi casi una certa possibilità di manovra verso il positivo, se l'esperienza subita non prende il sopravvento sulla condotta positiva, autonomamente messa in atto.
Dal punto di vista prettamente socio-culturale, quando alcuni comportamenti umani vengono ripetuti nel tempo con una certa frequenza, anche se sono riprovevoli, essi vengono percepiti dal gruppo come esempi da imitare, alla pari dei miti. Questo avviene perché i processi imitativi sono assai importanti per il nostro cervello, visto che la maggior parte delle nostre azioni deriva dall'osservazione di quelle altrui. Abbiamo prima fatto un esempio di come sia possibile realizzare comportamenti che contrastano con atteggiamenti mentali presenti in un preciso ambiente, ed ora si consideri, all'interno dello stesso contesto, un altro esempio. L'acquisizione di una abilità cognitiva manifestabile, come il sapere leggere e scrivere, avviene attraverso la ripetizione di gesti ed atti con i quali si esprimono quelle abilità. Nello stesso modo apprendiamo ad essere violenti, intolleranti, aggressivi; ma se, per esempio, questi atteggiamenti mentali sono presenti in un carcere perché considerati come i più adatti all'ambiente, la conseguenza è che saranno sempre più associati al "mito". In questo modo si cominciano ad apprezzare esageratamente tutti coloro che con la loro volontà (alla base di atteggiamenti comportamentali) riescono ad ottenere cioè che desiderano, anche con la forza della disonestà. Il delinquente diventa un mito per quel gruppo sociale, un punto di riferimento nel quale identificarsi, perché è lui che detta la legge e non la legge che detta a lui i comportamenti civili da perseguire. Nei luoghi in cui la legge non giunge, vige la legge del dominio spregiudicato di se stessi, come espressione mitica di una volontà senza limiti. Questo è l'Uomo, ancora oggi e nella sua sostanza più istintuale.
Ecco perché il carcere, dove tutto è limitato e limite, dove tutto è legge ed osservazione di regolamenti, si rivive lo stesso ambiente aggressivo ancestrale nel quale il più forte veniva osannato. E l'unico modo per rieducare è proprio fare riferimento, sia dal punto di vista educativo che esistenziale, agli atteggiamenti comportamentali, con in quali il detenutopuò dimostrare la propria volontà a determinare autonomamente il proprio futuro. Quando la struttura carceraria, nelle persone che la dirigono, è particolarmente attenta a stabilire un patto di solidarietà verso l'espressione della volontà personale al miglioramento di se stessi, il mito negativo del forte che vince e del duro che ottiene, si sgretola lentamente.

martedì 17 dicembre 2013

L’uomo è chiuso in un cerchio geometrico


Nome Teoria: L’uomo è chiuso in un cerchio geometrico
Abbreviazione Teoria: Teoria Geometrica
Simbolismo: CerchioImmorale                                                                                                                 
Campi di studio: esistenzialismo, ragione, coscienza, uomo e natura, etica, simbolismo e comportamentismo.
Anno: dal 2009 a oggi
Racchiusa nel saggio: Le finestre dei pensieri
Saggio “Le finestre dei pensieri” composta da: dieci capitoli (in questi capitoli è analizzata la teoria geometrica)
Citazione che rappresenta lo studio intrapreso: “L’interesse è l’arché dell’inconcepibile umano”.

La teoria dalla sua genesi e al suo significato:
L’impostazione di una “Teoria Geometrica” iniziò dal lontano 2009, quando mi trovai durante il mio percorso universitario, a studiare le fondamenta del pensiero filosofico che successivamente divenne fonte della mia speculazione filosofica. Da qui, nacque l’esigenza di ricercare un principio-fondamentoche fungesse da generatore imperituro di ogni mio “postulato”. Dopo anni, di osservazioni e studio, arrivai alla conclusione che si trattava semplicemente dell’insieme tra: Simbolismo; etica e comportamentismo. Questo è da allora il mio campo di ricerca che si accentra nello studio del comportamento dell’uomo. Studio la sua crescita, la sua espansione, la sua presenza nel mondo e il suo modo di vivere nel tempo. Studio, quegli elementi che credo siano fonte di un simbolismo imperituro nell’uomo. Tengo fede alla parola greca Ethos (ἦθος), che sta a significare: costume, comportamento, consuetudine. 

In tutto questo, nasce la mia “Teoria Geometrica” che si propaga su un forte malessere dell’uomo, e su quelle sensazioni che egli ha conseguito nel tempo. La teoria, è stata in maniera non del tutto analitica, sviluppata nel saggio “Le finestre dei pensieri” che ho pubblicato con la Booksprint nel 2011. In questo saggio, il termine “geometria” appare nel capitolo sulle finestre dell’imperialismo, e spiega in parte il culmine dell’azione dell’uomo.  Colgo, l’occasione per spiegare che il saggio “Le finestre dei pensieri” si aggira intorno alla metafora della finestra temporale sui pensieri dell’uomo. Il saggio, studia ciò che c’è dietro al pensiero ed esprime una forma di comportamento non naturale dell’uomo. Descrive il tutto, con una carrellata di teorie o supposizioni che in realtà hanno un fine comune, ossia, quello di delineare le fondamenta della mia “Teoria Geometrica”.


Teoria Geometrica:
Per prima voglio precisare che la denominazione “teoria geometrica” è solo una mera abbreviazione per agevolare il riconoscimento della stessa. In realtà, la teoria prende il nome di: <<L’uomo è chiuso in un cerchio geometrico>>. Essa è rappresentata anche da una raffigurazione che scandisce lo status del ragionamento. Tale raffigurazione prende il nome di: <<Cerchio Immorale>>. 

Spiegazione temporale:
Dopo aver chiarito i caratteri della sua genesi, è giunto il momento di delineare in breve i caratteri fondamentali della teoria.
Dall’analisi dell’azione dell’uomo si è arrivati alla conclusione che egli vive condizionato dalla sua esistenza. Tale condizionamento l’ha portato ad arricchire quelle azioni identificate nella pressione, nella schieramento, nell’interesse e nel sublime concetto dell’immortalità. Egli è condizionato, nonostante la sua evoluzione, da questi elementi che non gli permettono di vivere meglio il suo tempo.
Nel grafico, sono evidenziati tutti gli elementi sopra menzionati ed essi si uniscono per formare la condizionatezza dell’uomo moderno.
Consideriamo dapprima che la forza dell’agire per l’azione di un singolo individuo, a volte è più determinante del resto delle annotazioni perseguibili. In tal caso, si determina un movimento circolare definito irregolare. Questo movimento, delinea successivamente, la visione di un “Cerchio Immorale” che ha definito, secondo il mio punto di vista, i caratteri del mondo umano. La visione è sia visibile e sia non visibile, poiché si tratta il più delle volte di un cerchio che potremmo definire trascendentale e per questo non sempre disponibile.
All’interno del cerchio, sopra rappresentato, si ha un movimento legato all’azione dell’uomo non regolare. Infatti, il nucleo centrale del cerchio è dato da quella che è chiamata “espansione”. Ciò si riferisce alla accrescimento dell’uomo durante i suoi lustri terreni e al suo predominio del mondo. Il nucleo centrale fornisce le informazioni agli altri elementi che delineano l’azione dell’uomo. La parte bassa del cerchio, è caratterizzata dall’evoluzione da una parte e dall’altra lo schieramento. Dall’altre parte, l’uomo si evolve nel quotidiano per schierarsi successivamente dinnanzi a qualsiasi enunciato. Nella parte alta del cerchio, si ha l’immortalità che è data dal quel sentimento di onnipotenza ravvisabile in ogni uomo. Il nucleo centrale del cerchio, però è anche composto da pressione e interesseche fungono da pilastri per il predominio dell’uomo. L’insieme di questi elementi è data dal movimento generato per prima dalla schieramento, successivamente dalla pressione che unisce l’interesse che a sua volta unisce l’immortalità. Il tutto culmina, nell’evoluzione dell’uomo.  Sono elementi tra l’altro che evidenziano una malessere incondizionato del nostro tempo e generano un’azione immorale dell’uomo. Da qui, il nome di “cerchio immorale”. Spiego il motivo di questa mia convinzione.

Prima convinzione: L’etica è moralità           
La moralità sta alla base di ogni percezione dell’uomo ed egli affronta la sua azione e il suo agire tramite essa. Infatti, la morale è per definizione «diretta norma la quale l’uomo agisce». Tutto è posto nell’uomo secondo un effettivo credo morale. L’uomo vive freneticamente alla presenza della sua visione morale. E di conseguenza in base alla sua moralità agisce. Il tutto però è dovuto ai suoi comportamenti giornalieri mentre vive la sua normale routine. A volte questi comportamenti sono dettati anche dal considerare un’azione che può essere vista sia giusta e sia sbagliata. Detto questo, c’è da dire che il termine morale deriva dal sostantivo latino “moràlia” che lo fa coincidere con l’etica. Ad ogni modo la legge morale che attanaglia da sempre l’uomo è stata anche definita come se fosse l’oggetto dell’etica. Per converso, tra il concetto di etica e quello di morale non ci può essere a mio avviso disunione ma solo un’unione verso un unico obiettivo, ossia, capire lo stadio dei comportamenti dell’uomo. L’etica studia quelle che sono le virtù dell’uomo che Aristotele annoverava in: 1- intellettiva (dianoetica) che bramava l’esercizio della “ratio essenti”; 2- morale (etica) che indicava il dominio delle ragioni sulle coscienze sensibili. In effetti, Aristotele non sbagliava e ci ha offerto una visione cosciente del problema anche nei nostri giorni. Tutti noi abbiamo a che fare con la nostra coscienza che ci compila le domande cui ogni giorno dobbiamo darle una risposta. La morale è quella legge prettamente detta che ci condiziona la nostra esistenza. Essa è una condizione non tangibile ma tecnicamente probabile. Non è tangibile poiché essa è come tra l’altro annovera il grande Aristotele, avviene dopo la fisica, ossia dopo tutto ciò che è nato da materia e da una sostanza. La morale non è un ente che tocchiamo con mano, ma essa è un’essenza della nostra vita. Essa è una guida spirituale del nostro cammino di vita, è quello che Spinoza chiamava “Deus Sive Nature”, è quell’ente che per i presocratici era l’arché (dal greco ἀρχή), in altre parole, il principio originario del tutto.

Seconda convinzione: L’etica è condizione dell’uomo
Alla fine dello studio sull'etica, sono arrivato alla conclusione che essa sia l’ente che condiziona l’esistenza dell’uomo. Perché dico questo?Non bisogna più pensare a un’etica tecnicamente arcaica con l’accesso solo a chi vuole cimentarsi in tale amplesso dell’uomo. Bisogna spostare il giudizio sull'etica ai nostri giorni. Basta girarsi intorno per capire cosa ha costruito l’uomo in questi anni. Insomma bisogna dare uno sguardo moderno del problema. Per farla in breve, io credo che il concetto di “ethos” e di tutti i suoi derivati è da sempre associato allo studio dei grandi pensatori che diedero lustro al mondo umano. Il mio intento qui è quello, però, di spostare l’orizzonte della ricerca verso un altro aspetto che è il più fondamentale di tutti. L’uomo è artefice e carnefice della sua stessa visione morale. Egli è fautore di quel principio-fondamentoche oggi si ravvede nel concetto d’interesse e in esso, trova la sua giusta sistemazione. In effetti, io credo che: <<L’interesse è l’arché dell’inconcepibile umano>>. Tutto ruota attraverso tale termine e tutto è condizionato dall’interesse. Si ama per interesse, si sta in compagnia per interesse, si studia per interesse, si esce con gli amici per interesse. Si guarda verso la società civile e soprattutto verso la politica con interesse. Se la società civile ci offre qualcosa e la politica anche, allora ci accostiamo ad essi, altrimenti diciamo che non ci interessano perché non ci guadagniamo niente. L’interesse muove tutto e smuove ogni passo della nostra vita.  Oggi di tali aspetti è detentrice la “massa” che ha il primato e manipola la menti di tutti. In tal caso, questi aspetti sin qui studiati, si trasformano in una manifestazione che trova il culmine nell’enunciazioni di luoghi comuni. Il più delle volte non si riconosce neanche la provenienza di questi luoghi comuni ma si annoverano sbandierandoli come se fossero il trionfo più grande della nostra vita. Per capirci meglio. A oggi non è etico cimentarsi nelle problematiche che accomunano l’uomo per cercare di raccogliere i frutti migliori e aspettare la fioritura per raccogliere e crescere il fabbisogno che ogni uomo aspetta. Oggi non è etico andare contro quel “mainstream” che è ormai un fenomeno dilagante del nostro tempo. Oggi non è etico formulare uno “stream of consciousness” che possa scavalcare una diaspora tra un mondo irrisorio e un mondo conoscitivo. Oggi invece conta prendersi il cellulare all’ultimo “grido”, la scarpa all’ultima moda, vestirsi seguendo gli ”style” del momento e inseguendo miti televisivi e programmi televisivi che hanno solo il compito di intrattiene re e non di dare al pubblico un servizio utile. Ciò che è più facile dire è che l’uomo ha perso la bussola della sua vita e del suo tempo e non riesce più a ottimizzare al meglio quelle che sono le sue più ovvie necessità che da sempre hanno stimolato la sua esistenza. Guardiamoci attorno e capiremo che forse è ora di cambiare il “trand” che l’uomo si è posto vivendo il suo tempo nell'era odierna.


Tornando al Cerchio Immorale:
Analizziamo le fonti del cerchio.
Pressione: La pressione è quell’elemento che generalmente tiene in piedi un essere umano. Essa può essere alta o bassa a seconda degli oggetti e delle persone. Nel caso di specie, la pressione è definibile in: a) assoluta; b) relativa. La prima determina la fase in cui è esercitata. La seconda determina la pressione differenziale che si cerca di percepire nell’azione dell’uomo[1]. In tal caso, a mio avviso, l’uomo sarà sempre costretto a vivere sotto pressione. Vivendo sotto pressione, agisce il più delle volte, senza alcun “ratio”, su quello che in quel momento sta compiendo. Agisce considerando per giuste, l’azione che in egual misura gli sono preimpostate dall’evoluzione del suo tempo e dal vivere del suo tempo. A mio avviso, ciò ha predisposto un evoluzionismo al contrario che ha contributo alla formazione al “degrado” della società contemporanea che vive assecondando scelte già indirizzate e vive secondo sillogismi già vidimati. La pressione, è a mio avviso, la chiave dell’armonia umana. Un’armonia che si è persa nel tempo. Si ha la sensazione che per via della pressione, l’uomo si sente a volte, fermo come un “manichino fermo e avido all’ascolto[2]”.

L’interesse: Tutto ruota attraverso tale termine e tutto è condizionato dall’interesse. Si ama per interesse, si sta in compagnia per interesse, si studia per interesse, si esce con gli amici per interesse. Si guarda verso la società civile e soprattutto verso la politica con interesse. Se la società civile ci offre qualcosa e la politica anche, allora ci accostiamo ad essi, altrimenti diciamo che non ci interessano perché non ci guadagniamo niente. L’interesse muove tutto e smuove ogni passo della nostra vita.  Oggi di tali aspetti è detentrice la “massa” che ha il primato e manipola la menti di tutti. In tal caso, questi aspetti sin qui studiati, si trasformano in una manifestazione che trova il culmine nell’enunciazioni di luoghi comuni. Il più delle volte non si riconosce neanche la provenienza di questi luoghi comuni ma si annoverano sbandierandoli come se fossero il trionfo più grande della nostra vita. Da qui, <<L’interesse è l’arché dell’inconcepibile umano>>.
Schieramento:
Nel saggio “Le finestre dei pensieri” ho dato un’idea palese di tale concetto qui preso a specie. Infatti, nel capitolo “Le finestre della natura umana” ho definito i caratteri dello schieramento dal mio punto di vista. Riporto quanto già scritto nel saggio menzionato.
(…..)L’uomo, fondamentalmente, già dal momento in cui persegue un pensiero e lo rende principio, si schiera o per questo principio o per quello. La sua vita è piena di momenti in cui vale la pena schierarsi o val la pena non schierarsi. Si schiera quando forma un pensiero, quando forma la sue organizzazione, quando delinea le sue attività, quando freme per mettersi dinanzi agli altri. Si schiera anche quando vuole a tutti costi proliferare enunciati, ma in realtà lo fa solo per mettersi in prima linea e non vuole veramente dire qualcosa d’interessante. L’importante è schierarsi, e mettere un’ ordine alla vera realtà delle cose. Nel suo schierarsi vorrebbe che l’ordine proposto fosse quello unico e universale e nella maggior parte delle ipotesi non accetta il parere sfavorevole. Nel suo schierarsi è come se si mettesse dentro a delle trincee per difendersi dagli attacchi dei suoi simili. Questi attacchi non sono attacchi nel vero senso della parola. Essi sono enunciati che non viaggiano nella stessa direzione di chi realmente si schiera. L’uomo che si schiera si presta a formare pensieri che a lui sembrano perfettibili mentre ai suoi interlocutori sembrano innocui. Schierandosi egli assapora l’ebbrezza di esprimere il suo pensiero che a volte è un pensiero unico senza restrizione e senza alcuna accettazione di critica. Egli non accetta la critica e non vuole il giudizio da chi lo ascolta. Egli si schiera fedelmente e crede fedelmente alle sue idee e ai suoi pensieri. Egli si schiera come se fosse sempre in un continuo autodifendersi da attacchi che i suoi simili gli infliggono. Si schiera quasi come se fosse allineato come i pianeti che formano il sistema solare. Si schiera come se fosse allineato a un materialismo che è espressamente una «tendenza ad apprezzare solo i beni materiali e i piaceri materiali». Attraverso gli uni e gli altri l’uomo si schiera e si sente fiero del suo dire e del suo fare. Si schiera senza tener conto, a volte, della conseguenze. Si schiera vicino a qualsiasi enunciato e a volte si schiera dietro a parole, frasi, enunciati, detti da pensatori e per i quali l’uomo in sé e per sé si nasconde e si sente fortificato. Nella maggior parte delle ipotesi non conosce né chi lo ha enunciato e eppure il motivo per il quale è stato enunciato. Il materialismo fa schierare e lui si sente protetto. Materialmente, usando gli oggetti più innovativi e le attività più in auge si sente forte e invincibile. Egli usa il materialismo e si schiera con esso nella dama che ospita la vita umana. Il gioco della dama prevede l’utilizzo di due giocatori. L’uno è il materialismo e l’altro è l’uomo che si schiera. Si gioca con 24 pedine che si muovono da una sola casella alla volta. Si muovono in diagonale e in avanti. Si possono mangiare gli avversari scavalcandoli. I pezzi mangiati vengono posti fuori dalla dama e quindi sono scartati in maniera temporanea dal gioco. Ogni pedina però rappresenta l’uomo. Sia quelle di colore bianco, sia per le pedine di colore nero. Quindi si hanno 24 uomini diversi gli uni dagli altri. L’unico elemento che li accomuna è il muoversi in diagonale e in avanti per l’inerzia del gioco. Ognuno però si comporta in maniera diversa. Ognuno si sposta verso la migliore posizione possibile. Spostandosi si avvicina all’altro e lo osserva, ma colui che osserva si sente perfettamente unico e indivisibile. L’altro si sposta e continua a fare lo stesso movimento. Uno si nasconde e l’altro si manifesta. Quindi, abbiamo chi si schiera perché si vuole nascondere e chi si schiera per rendersi manifesto. Chi si nasconde osserva e cerca di capire le gesta e i pensieri che caratterizzano l’uomo. Chi si manifesta cerca sempre di avviare una situazione che gli doni la possibilità di essere osservato. Si manifesta perché vuole farsi notare. Paradossalmente, chi si nasconde si sente bene a stare insieme agli altri. Chi si manifesta lo fa solo per apparire. Schierandosi quindi, egli appare e manifestandosi si sente libero.[3]
 Immortalità:
Dall’insieme di elementi come la pressione, l’interesse e lo schieramento, nasce il sentimento dell’immortalità. L’uomo vive il suo tempo, sentendosi onnisciente e onnipotente. Si sente, generato da un ente che non determina in alcun modo il suo perire. Si sente, per via della sua condizionatezzaespressa in quest’articolo in lunghi tratti, immortale.
Si rende immortale, poiché nel suo dire, nel suo pensare, non è possibile tracciare una linea retta, ma è possibile determinare il suo inizio e non la sua fine. Vive in tal caso il suo tempo, all’interno di un lembo che gli garantisce protezione nel tempo e nello spazio.


Evoluzione:
Dall’insieme di elementi come la pressione, l’interesse e lo schieramento, l’evoluzione, nasce il sentimento dell’evoluzionismo. Il concetto dell’evoluzione è stato delineato nel saggio “Le finestre dei pensieri”. Nel capitolo denominato “Le finestre dell’imperialismo” ho definito in caratteri essenziali dell’evoluzione legata all’azione e all’agire dell’uomo.
Infatti, il capitolo recita:
(….)  Si dimostrerà storicamente partecipativo della propria evoluzione. Osservando la storia che sin qui ha contraddistinto l’uomo, leggiamo tra le sue righe un certo grado di colpa individuale, proiettata però dalle gesta di un solo uomo. Un solo uomo a volte è in grado di dominare intere masse e di ottenere il dono della partecipazione alle sue attività in maniera gratuita e genuina. In maniera tale che colui che diventa beneficiario di tale amplesso, forse neanche assapora l’agire provocato. L’agire nella storia focalizza e filtra quelle successioni di eventi che non sono neanche spiegabili, ma del resto essi ci sono “qui e ora”. Nell’agire della storia l’uomo non è più garante di se stesso ma è garante della globalità, poiché la storia viene tramandata in anno in anno e viene studiata per assaporare l’azione umana. La storia ci apre le finestre non materiali che in realtà dovremmo essere in possesso di certificare, ma non lo è. Non è facile aggregare unità di persone a condividere uno stesso ideale, ma è più facile che essi usino la democrazia per riuscire a migliorare il loro stato di bisogno. Un bisogno incondizionato e spregiudicato. Incondizionato, giacché non ci sono limiti; spregiudicato perché oltrepassa anche il limite stesso del non limite. Resta sempre da decifrare il perché un singolo individuo riesca a manipolare un popolo[4].


L’evoluzione è il culmine di una teoria che evidenzia la condizionatezza dell’uomo. In tal caso, aggiungo, che tutto questo, può essere considerato in una concezione di simbolismo che vede l’uomo avvicinarsi a qualsiasi enunciato grazie a tale fenomeno. Egli vede, simboli, in ogni azione che compie e con essi si identifica per vivere il suo tempo.
Nel caso di specie, il simbolismo può essere a mio avviso, ravvisato nella pura astrazione dell’identificazione del malessere che condiziona l’uomo. L’uomo è chiuso in un cerchio geometrico.
Ecco spiegata la mia teoria geometrica.




[1] A. Bagnato, Le finestre dei pensieri, Booksprint, Salerno, 2011, p. 115
[2] A. Bagnato, Le finestre dei pensieri, Booksprint, Salerno, 2011, p. 119
[3] A. Bagnato, Le finestre dei pensieri, Booksprint, Salerno, 2011, pp 79-81

[4]  A. Bagnato, Le finestre dei pensieri, Booksprint, Salerno, 2011, p.106

lunedì 2 dicembre 2013

La nostra resurrezione

La rubrica di Affari "E l’antropologo della mente?", a cura di Alessandro Bertirotti

Venerdì, 29 novembre 2013 




Esiste un modo universale grazie al quale qualsiasi persona in questo mondo, indipendentemente dall'ambiente in cui vive ed è cresciuto, recepisce i dati, le esperienze e le situazioni della realtà. In sostanza, grazie alle teorie, del secolo scorso e di Jean Piaget, unitamente alle scoperte recenti delle  neuroscienze, ora noi sappiamo che la nostra mente vive e si manifesta quando ha la possibilità di porsi in relazione con l'esterno.
La relazione primaria viene sperimentata, quasi del tutto inconsciamente, durante i nove mesi di gestazione, grazie ai quali il feto si configura lentamente come un essere vivente relazionale, ossia formato sulla base di rapporti biunivoci. Tale relazione si configura, innanzi tutto, nel rapporto madre-figlio. E sarà proprio questo primo rapporto biunivoco a determinare lo stile cognitivo di tutta la vita dell'individuo, e anche la consapevolezza della propria identità sarà il frutto di questo rapporto.
In sostanza, la vita di ogni essere umano, come di altri esseri viventi non umani, sarà il frutto del funzionamento di una mente relazionale, in grado di giungere agli alti livelli di specializzazione dei compiti grazie al continuo rispecchiamento di sé stessi con gli altri.
Questo rispecchiamento è detto anche assimilazione, per mezzo della quale ogni individuo si presta, all'interno dell'arco di vita cui è destinato, a stabilire una relazione duratura, affettiva e cognitiva con l'ambiente esterno. In questo processo, la volontà umana di conoscere si pone in secondo piano, perché quello che sostanzialmente si verifica è una assimilazione nolente, data dal fatto di trovarsi a vivere all'interno di stimoli che richiedono risposte spesso automatiche, definite riflessi. Prendere coscienza, tanto dei riflessi quanto dei propri desideri, bisogni ed obiettivi, è un passo successivo e che avviene gradatamente nel corso dell'evoluzione personale, anche attraverso crisi e dolori personali.
Nello stesso tempo è importante ricordare che il concetto scientifico di assimilazione, così come è introdotto dal Piaget, si riferisce esattamente alla funzione di modificare (integrare) l’alimento (empiricamente: il “cibo del pensiero”) incorporato per mezzo dell’interazione con l’ambiente, e con questo di conservare la struttura degli schemi operativi.
Saranno proprio queste crisi, dolori e "fermate evolutive" a determinare la nascita del sentimento di identità personale, visto che in quei momenti la nostra mente è costretta a rallentare il proprio funzionamento rivolto alla conquista degli spazi esterni per concentrarsi su se stessa, ossia sulla propria identità. È il periodo dell'adolescenza, all'interno del quale le domande sul proprio futuro, il proprio ruolo e compito all'interno della vita fioccano numerose, spesso senza risposte soddisfacenti, lasciando i giovani adulti delusi e perplessi.
È un momento evolutivo importante, perché in esso si realizza quell'accomodamento della mente al mondo esterno, confrontando i dati assimilati per integrare negli schemi esistenti le nuove informazioni ricevute dall’ambiente, in modo da modificarli senza distruggerli. Durante questo periodo, concentrato anch'esso nell'adolescenza in modo più critico, anche se presente ad ogni stadio evolutivo dell'apprendimento, le domande su se stessi sono costanti, specialmente quelle che riconducono la propria identità al mondo esterno. Ecco che troviamo così adolescenti che credono di poter cambiare il mondo con la loro volontà esclusiva, con le loro singole forze senza dover chiedere aiuto a nessuno, anche se il gruppo di appartenenza continua ad essere il luogo privilegiato nel quale rimanere coccolati.
Dopo questo periodo, entrando nell'età adulta, si opera quell'equilibrio necessario fra i dati assimilati e quelli accomodati, grazie al quale ogni persona è nelle condizioni di valutare le situazioni esistenziali adatte per esprimere se stesso, oppure tacerlo sapendo attendere il momento propizio per farlo successivamente.
È un gioco che impone a tutti noi di valutare tanto i tempi quanto gli spazi di realizzazione personale, che sono sempre mutevoli e stimolano la nostra mente a completare il proprio funzionamento cognitivo sulla base delle situazioni più o meno propizie.
Tutto questo discorso ci serve per la valutazione finale che vado a delineare: quale potrebbe essere la causa oggi di comportamenti apparenti di adolescenti poco reattivi alla necessità di andare oltre il visibile, oltre i dati concreti della vita quotidiana? Come fa un giovane ad avere speranza nel futuro quando il presente è così disastroso?
Dal mio punto di vista, la causa risiede in noi quarantenni o cinquantenni, che abbiamo abbandonato la stessa capacità da molti anni, credendo di essere giunti al punto di non ritorno, dove tutto il possibile è accaduto e le prospettive del futuro sono sempre più fievoli. In questo modo, i nostri figliassimilano la staticità degli adulti, la accomodano alle proprie speranze e ne ottengono un equilibrio all'interno del quale la meta da raggiungere si trova quasi sempre in un'altra nazione.
Ecco a cosa serve la mente: a sviluppare in ognuno di noi, senza sosta e sino alla fine, la convinzione che la nostra curiosità verso il mondo e il completamento della conoscenza verso se stessi non termina che con la morte fisica.
Penso che questo sia il concetto scientifico che si nasconde dietro l'idea di una risurrezioneoltreogni convinzione confessionale.

L'AUTORE - Alessandro Bertirotti è nato nel 1964. Si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l'Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia Generale presso la Facoltà di Architettura dell'Università degli Studi di Genova e Psicologia del rischio presso la Facoltà di Ingegneria di Palermo. Il suo sito è www.alessandrobertirotti.it