Pubblicato presso la
rivista dell’ I.G.F.
“IN-FORMAZIONE
PSICOTERAPIA COUNSELING FENOMENOLOGIA” 2009
Dr.
Stefano Coletta
Psicologo
Clinico
L’IMMAGINE
RISANATRICE
MODULAZIONE DEL SINTOMO NELLA GESTIONE DELL’ANSIA E DELLE
SINDROMI FOBICHE
Abstract:
Molte tecniche terapeutiche, usate
per le sindromi fobiche, mirano a modificare l’immagine mentale fobica;
alcuni studi (Ruggieri, 1987) hanno dimostrato infatti come l’immagine
sia in realtà “corporea”, psicofisiologica, abbia cioè un effetto sul corpo.
Nel nostro lavoro abbiamo cercato di trasferire, in una tecnica di
modificazione dell’immagine, un concetto che appartiene sia alla cultura
orientale, lo Zen, sia alla psicoterapia, in particolare la
sistemico/familiare: il paradosso.
Nello zen i paradossi,
chiamati koan, sono utilizzati per superare, per andare oltre la mente
dicotomica e sono posti sotto forma di domanda irrazionale (“qual è il suono di
una mano sola?”) a cui non v’è risposta logica, e su cui l’allievo deve
meditare anche per svariati anni,al fine di giungere a quella sorta di insight
emotivo, meta anche della psicoterapia; in psicoterapia, invece, l’utilizzo
dei paradossi è rappresentato da un esempio di Milton Erikson, il quale, al
paziente che vuol dimagrire, prescrive di mangiare, in modo che non si senta
più gratificato dal sintomo stesso.
Detto ciò è
interessante notare la somiglianza che il sintomo ansiogeno ha con il Koan: il
carattere irrazionale del sintomo ansiogeno infatti (paura di attraversare un
ponte) si rispecchia perfettamente con l’irrazionalità su cui si basa il Koan.
Da ciò prende avvio l’intuizione di utilizzare il sintomo stesso come
paradosso/Koan.
Ma come si trasforma
il sintomo ansiogeno in un immagine paradossale? grazie agli opposti:
la nostra mente infatti funziona per coppie di opposti, che sono la
precondizione essenziale di ogni accadimento psichico (Jung). Ecco allora che
avvicinare il sintomo, la paura di attraversare un ponte, con l’opposto,
il non-sintomo, la non paura di attraversare una strada senza ponti, fa
nascere la soluzione paradossale: attraversare un ponte in una strada senza
ponti. Questa è l’immagine paradossale che va costruita, come una sorta di
fotografia, e che porta, come tutti i paradossi, alla meta dell’insight
emotivo.
Il clinico, una volta che il paziente ha raccontato i suoi sintomi (ansiogeni),
interviene portandolo davanti alla contraddizione dei sintomi stessi: se si ha
paura di attraversare un ponte, si indagano le situazioni in cui non si
ha paura, ad esempio percorrere una strada dritta senza ponti; si marca il
fatto che il paziente conosce sia la paura e sia la non-paura. Questo
non si discosta (e non deve) dal lavoro e dalle competenze dello psicologo
clinico, che attraverso l’uso del colloquio si propone di superare la visione
univoca della realtà che il cliente porta nella domanda (Montesarchio,2004).
Ora, lo si pone davanti al paradosso: la soluzione per non aver paura di
attraversare un ponte è attraversare il ponte in una strada che non ha
ponti; questo sposta l’attenzione su una domanda senza senso, sulla quale
il paziente deve riflettere, che ha la funzione di smantellare la mente
razionale. Alcuni di questi atteggiamenti sono già evidenti nella letteratura come
il rispecchiamento di Rogers: il cliente, come viene chiamato nel counseling,
accenna insistentemente a una sua fobia delle altezze, e si sente rispondere:
"Dunque, se ho ben capito, lei ha paura di andare in alto". Quello
voleva una rassicurazione, ed è invece riportato al suo sintomo; cosa può
rispondere il paziente a certe affermazioni? Supponendo che la discussione si
protragga già da tempo, e che si sia tornati più volte su questa fobia, si
potrebbe arrivare a un vero e proprio insight: “Ma, forse, i miei sintomi non esprimono
nulla!”.
Parole senza senso,
magari disarticolate o in lingue ignorate dai clienti, uno scivolamento del
discorso da un piano di realtà a un altro e un mutismo ostinato rappresentano
solo alcune possibilità di cogliere questo insight.
Erickson ricorda come
durante una seduta estrasse una trombetta giocattolo, e riferì che da quel
momento il suo rapporto con un determinato paziente mutò positivamente. (Arena,2000).
Pur mantenendoci
indipendenti, è bene ricordare infatti come alcune scuole avanzano l'ipotesi
che l'analizzato dovrebbe semplicemente accorgersi che i suoi sintomi non hanno
senso ( Arena,1983,2000); per avvicinare il paziente a questa presa di
coscienza la pratica terapeutica (psicoanalitica) insegna a non dare risposte
razionali alle domande del paziente, ma a spingerlo verso una consapevolezza
emotiva, all’ insight emotivo, attraverso l’uso di paradossi,
contraddizioni e silenzi, mezzi tra l’altro usati anche nella pratica Zen (i
Koan appunto), con l’obiettivo di smantellare la mente razionale (Arena,1983,
Suler,1989).
L’uso dei paradossi in
psicoterapia può essere chiarito con questo esempio riportato ancora da Milton
Erikson, il quale, al paziente che vuol dimagrire, prescrive di mangiare, in
modo che non si senta più gratificato dal sintomo.
Anche nel buddismo Zen
allo scopo di far giungere l’allievo all’Illuminazione, si utilizzano dei
quesiti irrazionali detti Koan: sono domande senza senso, che non hanno
alcuna risposta “razionale”, (“qual è il suono di una mano sola?”) e che
hanno principalmente la funzione di smantellare la mente razionale, di andare
oltre la mente dicotomica stessa (illuminazione); l’allievo deve immaginare e
immergersi nel Koan (esercizio che può durare anche svariati anni) fino a che
esauritesi le risorse razionali non giunge a quella sorta di insight emotivo,
meta anche della pratica psicoanalitica, detto appunto Illuminazione; è lo
stesso Jung a notare come l’Illuminazione sarebbe simile a quella interezza
priva di scissioni a cui presume di giungere il trattamento terapeutico quando
rimuove le ostruzioni fatte dall’intelletto (Arena, 1983).
Il Koan buddista,
allora, ha la medesima funzione di andare oltre gli opposti, ed proprio su
questo punto che formuleremo la domanda/koan, che trova soluzione solo nell’intuizione.
Brandler e Grinder, (Brandler, Grinder, 1980) hanno notato come il
sintomo possa svanire semplicemente se si introduce una variazione nel processo
in cui si presenta, è allora possibile ipotizzare che chiedersi, per rimanere
nel nostro esempio, “come si fa ad attraversare un ponte in una strada che
non ha ponti?” aggiunge quell’elemento mancante che trasforma il sintomo
ansiogeno in un perfetto Koan, con la medesima funzione terapeutica di far
arrivare al cosiddetto insight emotivo.
Nel nostro lavoro infatti
è proprio l’incrocio tra la paura e la non-paura che fa scaturire la
domanda/koan: Come si fa ad attraversare il ponte in una strada senza ponti?
.
La risposta va trovata
dallo stesso paziente in un lavoro di fantasia, di creatività, al fine di
creare un disegno, un immagine che raffiguri la soluzione paradossale, e quindi
l'unione degli opposti. Facciamo alcuni esempi pratici. Prendendo la paura di
attraversare un ponte, l'immagine risanatrice, cioè la raffigurazione
mentale della soluzione paradossale (attraversare un ponte in una strada senza
ponti) potrebbe essere rappresentata come una strada senza ponte sulla quale si
passa e sotto ad essa un altra strada, con un ponte; in questa immagine noi
attraversiamo un ponte (in quanto ci passiamo sopra) ma in una strada senza
ponti.
Un ulteriore esempio,
come la paura di uscire, può trovare la soluzione paradossale nell'”uscire
rimanendo a casa"; l'immagine risanatrice potrebbe essere allora
l'immaginare una stanza della casa in cui manca una parete, e noi, posti
davanti, osserviamo l'esterno. In questa immagine noi usciamo (in quanto dallo
spazio della parete possiamo vedere fuori, immaginare la strada, gli alberi,
etc) pur rimanendo dentro la nostra stanza.
Queste immagini hanno
la funzione di superare, di andare oltre, come abbiamo detto, quegli opposti
generatori del conflitto ansiogeno.
Questo uso “creativo” dell’immagine è ben noto; è stato descritto da
C.G.Jung, nella tecnica dell’”Immaginazione
attiva”, che consiste in una sorta di introspezione, cioè un osservazione
del flusso delle immagini interne, senza che venga posto alcun tema: si inizia
fissando l’attenzione su un immagine che giunge spontanea, e si continua
osservando le trasformazione che quest’immagine subisce. Questo permette di ottenere una sorta di
fusione di quelle dimensioni opposte, razionale (pensiero e sentimento) e
irrazionale (intuizione e sensazione), che caratterizzano la mente. Ma non
solo: anche Dora Kalff, allieva di Jung, utilizza l’aspetto creativo delle
immagini interiori attraverso il cosiddetto “Gioco della sabbia”, dove il paziente è invitato a ricostruire in una sabbiera, un contenitore in legno
con il fondo dipinto di azzurro pieno di sabbia che può essere popolato di oggetti
come sassi o conchiglie, le più diverse situazioni o più semplicemente fare un
disegno.
Nel nostro lavoro
invece si fa disegnare l’immagine risanatrice, così che possa fungere da
“contenitore” della paura stessa.
E’ lo stesso Jung,
ripreso da J. Hillman, che ci sottolinea l’importanza dell’immagine, quando
disse: “Finchè riuscivo a tradurre le emozioni in immagini e cioè a trovare le
immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e
rassicurato”, e N. Cobb, che, sempre riferendosi a Jung, disse: “ogni processo
psichico è un’immagine e un immaginare; allora la stoffa di cui è fatta l’anima
è l’immagine”.
L’intuizione di base per
cui il sintomo si annulla se lo si avvicina al suo opposto, il non-sintomo,
prende avvio dal funzionamento della mente stessa come dicotomica, categorizzante
per coppie di opposti (Venturini,1993).
In ambito psicologico
anche Freud parla di “coppia di opposti” nel saggio “Pulsioni e loro
destini”(Freud, 1976) per rispondere all’esigenza di trovare un dualismo
fondamentale che spieghi il conflitto; anche Jung riteneva gli opposti una
precondizione indispensabile della vita psichica esistendo tra essi una
differenza di potenziale responsabile degli accadimenti psichici; aggiunge poi,
che si deve ad Eraclito la scoperta dell’”enantiodromia” secondo la quale tutto
ciò che esiste passa per il suo opposto, e ciò, aggiungiamo noi, non può
che valere anche per i sintomi.
Per la modalità di
svolgimento e la praticità dell’esercizio, esso può essere equiparato alle tecniche
del “Come se” (che consiste nel chiedersi “come reagirei se fossi
guarito?”) o della “Desensibilizzazione sistematica”, (dove si associa
alla scena ansiogena un paura più grande rispetto a quella vissuta) (psicologia
strategica, psicologia clinica, Cantelmi, Pensavalli, 2005).
E’ a questo punto che diventa interessante notare le implicazioni che
ciò può avere sui disturbi d’ansia.
Implicazioni
cliniche: ansia, paura, ossessioni:
Sappiamo come l’ansia
si colloca in un punto d’incrocio tra l’asse dell’attenzione e l’asse
della paura; è usata in due termini, l’ansia libera, con tremore
e tachicardia, e angoscia, dove prevale la sensazione di tristezza (Ruggieri,1987);
sappiamo poi come uno stato acuto di ansia può portare ad attacchi di panico,
detti anche crisi d’angoscia, e come l’angoscia sia alla base dei disturbi
ossessivo/compulsivi, dove per poter gestire la comparsa di questi pensieri
angosciosi (ossessioni) il soggetto è spinto ad attuare pratiche rituali
(compulsione) (Godfryd,1994).
Nel DSM IV il Disturbo
d’Ansia Generalizzato (DAG) viene descritto come un disturbo
caratterizzato dalla presenza di ansia e preoccupazione (attesa apprensiva)
eccessive (…) rispetto alla reale probabilità o impatto dell’evento temuto.
Molti individui con tale Disturbo riferiscono un disagio soggettivo dovuto alla
preoccupazione costante, con conseguente compromissione del funzionamento
sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Insieme alla tensione muscolare
possono essere presenti tremori, contratture, o dolorabilità muscolari da un
lato e sintomi somatici (per es., freddo; mani appiccicose; bocca asciutta;
sudorazione; nausea o diarrea; difficoltà a deglutire o “nodo alla gola”) con
risposte di allarme esagerate dall’altro. Nel Disturbo da Ansia Generalizzato i
sintomi di iperarousal vegetativo (ad es., aumentato ritmo cardiaco, dispnea e
vertigini) sono meno preminenti che in altri Disturbi di Ansia, quali il Disturbo
di Panico descritto invece come “un periodo preciso durante il quale v’è
l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione , paura o terrore, spesso
associati con sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono
presenti sintomi come dispnea, palpitazione, dolore o fastidio al petto,
sensazione di asfissia o soffocamento e paura di impazzire e perdere il
controllo”.
Se, quindi, meta della
psicoterapia è il raggiungimento dell’insight emotivo, ottenuto attraverso
l’uso di paradossi e di contraddizioni, e che equivale, riprendendo Jung,
all’Illuminazione, ottenuta anch’essa, nello Zen, attraverso l’uso di paradossi
detti Koan, si propone allora, considerando anche le somiglianze tra sintomo
ansiogeno e paradosso, di trasformare il sintomo in un Koan, fine
l’annullamento del sintomo stesso; tale annullamento è dovuto, riprendendo
Jung, dall’incontro del sintomo con il non-sintomo, dal quale emerge una
domanda contraddittoria (il Koan appunto) che porta allo svelamento di sé senza
sintomi.
La sofferenza, infine,
può essere trasformata, quindi espressa, con la creatività, indicata come la
capacità del singolo di sperimentare cose nuove; Carotenuto sottolinea come la pratica
analitica dovrebbe “curare il male” facendo attivare la creatività che il
paziente ha eccessivamente rimosso (Carotenuto,1991).
Approfondimenti:
Per alcune situazioni
fobiche, in cui manca un oggetto ansiogeno specifico, o non è stato possibile
rintracciare una qualche situazione scatenante, si può ricorrere ad un
interessante espediente: si parte dal presupposto che l’ansia è un meccanismo
psicofisiologico che prepara l’organismo alle risposte di attacco/fuga in
corrispondenza di un determinato pericolo; diviene patologica quando manca una
reale situazione di pericolo; in questi casi abbiamo l’ansia ma non c’è la
situazione che giustifichi quella determinata reazione dell’organismo.
Il Disturbo d’Ansia
Generalizzato infatti, sottolinea il DSM IV, è la presenza di ansia e
preoccupazione (attesa apprensiva) eccessive (…) rispetto alla reale
probabilità o impatto dell’evento temuto.
Detto ciò, è interessante
notare, basandoci sempre sulle nostre considerazioni sugli opposti e i
paradossi, come si possa creare la domanda/koan contrapponendo allo stato
ansiogeno la situazione reale mancante: si potrebbe chiedere ad esempio, “quale
situazione secondo lei giustificherebbe la sua ansia?”. Si potrebbe rispondere
che quell’ansia sarebbe giustificata qualora ci fosse una minaccia da parte di
una persona armata; l’ansia allora sottolineerebbe che v’è una minaccia, ma
nella realtà non c’è nessuno a minacciare, ed ecco il paradosso/Koan: “come
possono minacciarmi se non c’è nessuno che possa farlo?”. Ciò fa leva anche sul
fatto che il paziente sa che non c’è nessuna situazione reale, che non c’è
nessuno che possa minacciarlo, ed è per questo che percepisce la sua ansia come
esagerata ed è spinto a chiedere aiuto.
Come la
psicologia strategica insegna (Nardone,2000), sono proprio le riposte
messe in atto dal soggetto a confermare il sintomo: quando si ha paura di
uscire, si rimane a casa, ma è proprio il rimanere a casa che conferma che
abbiamo paura di uscire; nel nostro esercizio approfittiamo proprio delle
risposte messe in atto da soggetto, perché rappresentano il non-sintomo, il
punto d’incrocio del paradosso, da cui si palesa la domanda/koan.
Un ulteriore
espediente per aiutare a far cogliere l’inconsistenza
dei sintomi consiste nel farli raccontare davanti ad
uno specchio.
L’importanza del
“vedersi riflesso”, seppur senza uno specchio reale, è stata sottolineata da
vari autori, che hanno evidenziato l’importanza nella terapia gruppale, del
cosiddetto “effetto-specchio” dove il soggetto si vede riflesso
nell’interazione con gli altri membri del gruppo imparando così a conoscersi; è
quello che Foulkes chiama “risonanza” (Neri,2004). L'utilizzazione di
uno specchio reale invece è ampiamente utilizzata in numerosi esercizi
dell'analisi transazionale con lo scopo di far integrare particolari sentimenti
(Murjel, Jongeward,1980).
In riferimento alla
cultura orientale ricordiamo come la contemplazione della propria immagine è da
sempre usata nelle pratiche tantriche con l’obiettivo di cogliere il “nonsense”,
il vuoto, l’inconsistenza del sé (Arena,2000); nel nostro caso invece
l’obiettivo dello specchio rimane quello di aiutare a far cogliere
l’inconsistenza dei sintomi, attraverso l’osservazione della propria immagine che li racconta.
Poi v’è un colpo
inaspettato: lo specchio d’improvviso viene oscurato (o rotto) dal terapeuta
che mette davanti un pannello; quest’improvvisazione, l’aggiunta di un elemento
inaspettato, hanno la funzione di destabilizzare, ponendo in modo netto
l’accento sull’azione anziché sul pensiero e interrompendo le catene
associative mentali con l’obiettivo di smantellare la mente razionale e far
giungere il paziente alla comprensione emotiva dell’inconsistenza dei propri
sintomi.
E’ una tecnica usata
nello Zen: Presso la scuola Rinzai o del “cambiamento improvviso”, sembra che
maestri esperti siano in grado di capire quando l’allievo è vicino alla soglia
di un insight e riescano ad avvicinarlo a questa esperienza con atti
inaspettati, spontanei e improvvisi, intesi a sbloccare il processo di pensiero
concettuale. Il maestro, alla domanda dell’allievo che vuol raggiungere
l’Illuminazione, risponde ferendolo con un colpo di bastone (Arena, 1983).
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Venturini,
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Neri C., "Gruppo"
Borla, 2004.
Per le dissertazioni
sullo Zen si veda: Serra, T.C.,“Vivere
Zen”, Xenia edizioni, 1998
Un
ringraziamento particolare va al Prof. Riccardo Venturini, già Ordinario di
Psicofisiologia Clinica presso l’Università “La Sapienza ” di Roma, grazie
al quale è stato possibile realizzare il presente lavoro.