venerdì 27 settembre 2013

L’IMMAGINE RISANATRICE - MODULAZIONE DEL SINTOMO NELLA GESTIONE DELL’ANSIA E DELLE SINDROMI FOBICHE

Pubblicato presso la rivista dell’ I.G.F.
 “IN-FORMAZIONE PSICOTERAPIA COUNSELING FENOMENOLOGIA” 2009

Dr. Stefano Coletta
Psicologo Clinico


L’IMMAGINE RISANATRICE
 MODULAZIONE DEL SINTOMO NELLA GESTIONE DELL’ANSIA E DELLE SINDROMI FOBICHE

Abstract: Molte tecniche terapeutiche, usate per le sindromi fobiche, mirano a modificare l’immagine mentale fobica; alcuni studi (Ruggieri, 1987) hanno dimostrato infatti come l’immagine sia in realtà “corporea”, psicofisiologica, abbia cioè un effetto sul corpo. Nel nostro lavoro abbiamo cercato di trasferire, in una tecnica di modificazione dell’immagine, un concetto che appartiene sia alla cultura orientale, lo Zen, sia alla psicoterapia, in particolare la sistemico/familiare: il paradosso.
Nello zen i paradossi, chiamati koan, sono utilizzati per superare, per andare oltre la mente dicotomica e sono posti sotto forma di domanda irrazionale (“qual è il suono di una mano sola?”) a cui non v’è risposta logica, e su cui l’allievo deve meditare anche per svariati anni,al fine di giungere a quella sorta di insight emotivo, meta anche della psicoterapia; in psicoterapia, invece, l’utilizzo dei paradossi è rappresentato da un esempio di Milton Erikson, il quale, al paziente che vuol dimagrire, prescrive di mangiare, in modo che non si senta più gratificato dal sintomo stesso.
Detto ciò è interessante notare la somiglianza che il sintomo ansiogeno ha con il Koan: il carattere irrazionale del sintomo ansiogeno infatti (paura di attraversare un ponte) si rispecchia perfettamente con l’irrazionalità su cui si basa il Koan. Da ciò prende avvio l’intuizione di utilizzare il sintomo stesso come paradosso/Koan. 
Ma come si trasforma il sintomo ansiogeno in un immagine paradossale? grazie agli opposti: la nostra mente infatti funziona per coppie di opposti, che sono la precondizione essenziale di ogni accadimento psichico (Jung). Ecco allora che avvicinare il sintomo, la paura di attraversare un ponte, con l’opposto, il non-sintomo, la non paura di attraversare una strada senza ponti, fa nascere la soluzione paradossale: attraversare un ponte in una strada senza ponti. Questa è l’immagine paradossale che va costruita, come una sorta di fotografia, e che porta, come tutti i paradossi, alla meta dell’insight emotivo.

 Il clinico, una volta che il paziente ha raccontato i suoi sintomi (ansiogeni), interviene portandolo davanti alla contraddizione dei sintomi stessi: se si ha paura di attraversare un ponte, si indagano le situazioni in cui non si ha paura, ad esempio percorrere una strada dritta senza ponti; si marca il fatto che il paziente conosce sia la paura e sia la non-paura. Questo non si discosta (e non deve) dal lavoro e dalle competenze dello psicologo clinico, che attraverso l’uso del colloquio si propone di superare la visione univoca della realtà che il cliente porta nella domanda (Montesarchio,2004). Ora, lo si pone davanti al paradosso: la soluzione per non aver paura di attraversare un ponte è attraversare il ponte in una strada che non ha ponti; questo sposta l’attenzione su una domanda senza senso, sulla quale il paziente deve riflettere, che ha la funzione di smantellare la mente razionale. Alcuni di questi atteggiamenti sono già evidenti nella letteratura come il rispecchiamento di Rogers: il cliente, come viene chiamato nel counseling, accenna insistentemente a una sua fobia delle altezze, e si sente rispondere: "Dunque, se ho ben capito, lei ha paura di andare in alto". Quello voleva una rassicurazione, ed è invece riportato al suo sintomo; cosa può rispondere il paziente a certe affermazioni? Supponendo che la discussione si protragga già da tempo, e che si sia tornati più volte su questa fobia, si potrebbe arrivare a un vero e proprio insight: “Ma, forse, i miei sintomi non esprimono nulla!”.
Parole senza senso, magari disarticolate o in lingue ignorate dai clienti, uno scivolamento del discorso da un piano di realtà a un altro e un mutismo ostinato rappresentano solo alcune possibilità di cogliere questo insight.
Erickson ricorda come durante una seduta estrasse una trombetta giocattolo, e riferì che da quel momento il suo rapporto con un determinato paziente mutò positivamente. (Arena,2000).
Pur mantenendoci indipendenti, è bene ricordare infatti come alcune scuole avanzano l'ipotesi che l'analizzato dovrebbe semplicemente accorgersi che i suoi sintomi non hanno senso ( Arena,1983,2000); per avvicinare il paziente a questa presa di coscienza la pratica terapeutica (psicoanalitica) insegna a non dare risposte razionali alle domande del paziente, ma a spingerlo verso una consapevolezza emotiva, all’ insight emotivo, attraverso l’uso di paradossi, contraddizioni e silenzi, mezzi tra l’altro usati anche nella pratica Zen (i Koan appunto), con l’obiettivo di smantellare la mente razionale (Arena,1983, Suler,1989).
L’uso dei paradossi in psicoterapia può essere chiarito con questo esempio riportato ancora da Milton Erikson, il quale, al paziente che vuol dimagrire, prescrive di mangiare, in modo che non si senta più gratificato dal sintomo.
Anche nel buddismo Zen allo scopo di far giungere l’allievo all’Illuminazione, si utilizzano dei quesiti irrazionali detti Koan: sono domande senza senso, che non hanno alcuna risposta “razionale”, (“qual è il suono di una mano sola?”) e che hanno principalmente la funzione di smantellare la mente razionale, di andare oltre la mente dicotomica stessa (illuminazione); l’allievo deve immaginare e immergersi nel Koan (esercizio che può durare anche svariati anni) fino a che esauritesi le risorse razionali non giunge a quella sorta di insight emotivo, meta anche della pratica psicoanalitica, detto appunto Illuminazione; è lo stesso Jung a notare come l’Illuminazione sarebbe simile a quella interezza priva di scissioni a cui presume di giungere il trattamento terapeutico quando rimuove le ostruzioni fatte dall’intelletto (Arena, 1983).
Il Koan buddista, allora, ha la medesima funzione di andare oltre gli opposti, ed proprio su questo punto che formuleremo la domanda/koan, che trova soluzione solo nell’intuizione. Brandler e Grinder, (Brandler, Grinder, 1980) hanno notato come il sintomo possa svanire semplicemente se si introduce una variazione nel processo in cui si presenta, è allora possibile ipotizzare che chiedersi, per rimanere nel nostro esempio, “come si fa ad attraversare un ponte in una strada che non ha ponti?” aggiunge quell’elemento mancante che trasforma il sintomo ansiogeno in un perfetto Koan, con la medesima funzione terapeutica di far arrivare al cosiddetto insight emotivo.
Nel nostro lavoro infatti è proprio l’incrocio tra la paura e la non-paura che fa scaturire la domanda/koan: Come si fa ad attraversare il ponte in una strada senza ponti? .
La risposta va trovata dallo stesso paziente in un lavoro di fantasia, di creatività, al fine di creare un disegno, un immagine che raffiguri la soluzione paradossale, e quindi l'unione degli opposti. Facciamo alcuni esempi pratici. Prendendo la paura di attraversare un ponte, l'immagine risanatrice, cioè la raffigurazione mentale della soluzione paradossale (attraversare un ponte in una strada senza ponti) potrebbe essere rappresentata come una strada senza ponte sulla quale si passa e sotto ad essa un altra strada, con un ponte; in questa immagine noi attraversiamo un ponte (in quanto ci passiamo sopra) ma in una strada senza ponti.
Un ulteriore esempio, come la paura di uscire, può trovare la soluzione paradossale nell'”uscire rimanendo a casa"; l'immagine risanatrice potrebbe essere allora l'immaginare una stanza della casa in cui manca una parete, e noi, posti davanti, osserviamo l'esterno. In questa immagine noi usciamo (in quanto dallo spazio della parete possiamo vedere fuori, immaginare la strada, gli alberi, etc) pur rimanendo dentro la nostra stanza.
Queste immagini hanno la funzione di superare, di andare oltre, come abbiamo detto, quegli opposti generatori del conflitto ansiogeno.
Questo uso “creativo” dell’immagine è ben noto; è stato descritto da C.G.Jung, nella tecnica dell’”Immaginazione attiva”, che consiste in una sorta di introspezione, cioè un osservazione del flusso delle immagini interne, senza che venga posto alcun tema: si inizia fissando l’attenzione su un immagine che giunge spontanea, e si continua osservando le trasformazione che quest’immagine subisce.  Questo permette di ottenere una sorta di fusione di quelle dimensioni opposte, razionale (pensiero e sentimento) e irrazionale (intuizione e sensazione), che caratterizzano la mente. Ma non solo: anche Dora Kalff, allieva di Jung, utilizza l’aspetto creativo delle immagini interiori attraverso il cosiddetto “Gioco della sabbia”, dove il paziente è invitato a ricostruire in una sabbiera, un contenitore in legno con il fondo dipinto di azzurro pieno di sabbia che può essere popolato di oggetti come sassi o conchiglie, le più diverse situazioni o più semplicemente fare un disegno.
Nel nostro lavoro invece si fa disegnare l’immagine risanatrice, così che possa fungere da “contenitore” della paura stessa.
E’ lo stesso Jung, ripreso da J. Hillman, che ci sottolinea l’importanza dell’immagine, quando disse: “Finchè riuscivo a tradurre le emozioni in immagini e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rassicurato”, e N. Cobb, che, sempre riferendosi a Jung, disse: “ogni processo psichico è un’immagine e un immaginare; allora la stoffa di cui è fatta l’anima è l’immagine”.
L’intuizione di base per cui il sintomo si annulla se lo si avvicina al suo opposto, il non-sintomo, prende avvio dal funzionamento della mente stessa come dicotomica, categorizzante per coppie di opposti (Venturini,1993).
In ambito psicologico anche Freud parla di “coppia di opposti” nel saggio “Pulsioni e loro destini”(Freud, 1976) per rispondere all’esigenza di trovare un dualismo fondamentale che spieghi il conflitto; anche Jung riteneva gli opposti una precondizione indispensabile della vita psichica esistendo tra essi una differenza di potenziale responsabile degli accadimenti psichici; aggiunge poi, che si deve ad Eraclito la scoperta dell’”enantiodromia” secondo la quale tutto ciò che esiste passa per il suo opposto, e ciò, aggiungiamo noi, non può che valere anche per i sintomi.
Per la modalità di svolgimento e la praticità dell’esercizio, esso può essere equiparato alle tecniche del “Come se” (che consiste nel chiedersi “come reagirei se fossi guarito?”) o della “Desensibilizzazione sistematica”, (dove si associa alla scena ansiogena un paura più grande rispetto a quella vissuta) (psicologia strategica, psicologia clinica, Cantelmi, Pensavalli, 2005).
E’ a questo punto che diventa interessante notare le implicazioni che ciò può avere sui disturbi d’ansia.

Implicazioni cliniche: ansia, paura, ossessioni:

Sappiamo come l’ansia si colloca in un punto d’incrocio tra l’asse dell’attenzione e l’asse della paura; è usata in due termini, l’ansia libera, con tremore e tachicardia, e angoscia, dove prevale la sensazione di tristezza (Ruggieri,1987); sappiamo poi come uno stato acuto di ansia può portare ad attacchi di panico, detti anche crisi d’angoscia, e come l’angoscia sia alla base dei disturbi ossessivo/compulsivi, dove per poter gestire la comparsa di questi pensieri angosciosi (ossessioni) il soggetto è spinto ad attuare pratiche rituali (compulsione) (Godfryd,1994).
Nel DSM IV il Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG) viene descritto come un disturbo caratterizzato dalla presenza di ansia e preoccupazione (attesa apprensiva) eccessive (…) rispetto alla reale probabilità o impatto dell’evento temuto. Molti individui con tale Disturbo riferiscono un disagio soggettivo dovuto alla preoccupazione costante, con conseguente compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Insieme alla tensione muscolare possono essere presenti tremori, contratture, o dolorabilità muscolari da un lato e sintomi somatici (per es., freddo; mani appiccicose; bocca asciutta; sudorazione; nausea o diarrea; difficoltà a deglutire o “nodo alla gola”) con risposte di allarme esagerate dall’altro. Nel Disturbo da Ansia Generalizzato i sintomi di iperarousal vegetativo (ad es., aumentato ritmo cardiaco, dispnea e vertigini) sono meno preminenti che in altri Disturbi di Ansia, quali il Disturbo di Panico descritto invece come “un periodo preciso durante il quale v’è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione , paura o terrore, spesso associati con sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono presenti sintomi come dispnea, palpitazione, dolore o fastidio al petto, sensazione di asfissia o soffocamento e paura di impazzire e perdere il controllo”.
Se, quindi, meta della psicoterapia è il raggiungimento dell’insight emotivo, ottenuto attraverso l’uso di paradossi e di contraddizioni, e che equivale, riprendendo Jung, all’Illuminazione, ottenuta anch’essa, nello Zen, attraverso l’uso di paradossi detti Koan, si propone allora, considerando anche le somiglianze tra sintomo ansiogeno e paradosso, di trasformare il sintomo in un Koan, fine l’annullamento del sintomo stesso; tale annullamento è dovuto, riprendendo Jung, dall’incontro del sintomo con il non-sintomo, dal quale emerge una domanda contraddittoria (il Koan appunto) che porta allo svelamento di sé senza sintomi.
La sofferenza, infine, può essere trasformata, quindi espressa, con la creatività, indicata come la capacità del singolo di sperimentare cose nuove; Carotenuto sottolinea come la pratica analitica dovrebbe “curare il male” facendo attivare la creatività che il paziente ha eccessivamente rimosso (Carotenuto,1991).


Approfondimenti:

Per alcune situazioni fobiche, in cui manca un oggetto ansiogeno specifico, o non è stato possibile rintracciare una qualche situazione scatenante, si può ricorrere ad un interessante espediente: si parte dal presupposto che l’ansia è un meccanismo psicofisiologico che prepara l’organismo alle risposte di attacco/fuga in corrispondenza di un determinato pericolo; diviene patologica quando manca una reale situazione di pericolo; in questi casi abbiamo l’ansia ma non c’è la situazione che giustifichi quella determinata reazione dell’organismo.
Il Disturbo d’Ansia Generalizzato infatti, sottolinea il DSM IV, è la presenza di ansia e preoccupazione (attesa apprensiva) eccessive (…) rispetto alla reale probabilità o impatto dell’evento temuto.
Detto ciò, è interessante notare, basandoci sempre sulle nostre considerazioni sugli opposti e i paradossi, come si possa creare la domanda/koan contrapponendo allo stato ansiogeno la situazione reale mancante: si potrebbe chiedere ad esempio, “quale situazione secondo lei giustificherebbe la sua ansia?”. Si potrebbe rispondere che quell’ansia sarebbe giustificata qualora ci fosse una minaccia da parte di una persona armata; l’ansia allora sottolineerebbe che v’è una minaccia, ma nella realtà non c’è nessuno a minacciare, ed ecco il paradosso/Koan: “come possono minacciarmi se non c’è nessuno che possa farlo?”. Ciò fa leva anche sul fatto che il paziente sa che non c’è nessuna situazione reale, che non c’è nessuno che possa minacciarlo, ed è per questo che percepisce la sua ansia come esagerata ed è spinto a chiedere aiuto.
Come la psicologia strategica insegna (Nardone,2000), sono proprio le riposte messe in atto dal soggetto a confermare il sintomo: quando si ha paura di uscire, si rimane a casa, ma è proprio il rimanere a casa che conferma che abbiamo paura di uscire; nel nostro esercizio approfittiamo proprio delle risposte messe in atto da soggetto, perché rappresentano il non-sintomo, il punto d’incrocio del paradosso, da cui si palesa la domanda/koan.


Un ulteriore espediente per aiutare a far cogliere l’inconsistenza dei sintomi consiste nel farli raccontare davanti ad uno specchio.
L’importanza del “vedersi riflesso”, seppur senza uno specchio reale, è stata sottolineata da vari autori, che hanno evidenziato l’importanza nella terapia gruppale, del cosiddetto “effetto-specchio” dove il soggetto si vede riflesso nell’interazione con gli altri membri del gruppo imparando così a conoscersi; è quello che Foulkes chiama “risonanza” (Neri,2004). L'utilizzazione di uno specchio reale invece è ampiamente utilizzata in numerosi esercizi dell'analisi transazionale con lo scopo di far integrare particolari sentimenti (Murjel, Jongeward,1980).
In riferimento alla cultura orientale ricordiamo come la contemplazione della propria immagine è da sempre usata nelle pratiche tantriche con l’obiettivo di cogliere il “nonsense”, il vuoto, l’inconsistenza del sé (Arena,2000); nel nostro caso invece l’obiettivo dello specchio rimane quello di aiutare a far cogliere l’inconsistenza dei sintomi, attraverso l’osservazione  della propria immagine che li racconta.
Poi v’è un colpo inaspettato: lo specchio d’improvviso viene oscurato (o rotto) dal terapeuta che mette davanti un pannello; quest’improvvisazione, l’aggiunta di un elemento inaspettato, hanno la funzione di destabilizzare, ponendo in modo netto l’accento sull’azione anziché sul pensiero e interrompendo le catene associative mentali con l’obiettivo di smantellare la mente razionale e far giungere il paziente alla comprensione emotiva dell’inconsistenza dei propri sintomi.
E’ una tecnica usata nello Zen: Presso la scuola Rinzai o del “cambiamento improvviso”, sembra che maestri esperti siano in grado di capire quando l’allievo è vicino alla soglia di un insight e riescano ad avvicinarlo a questa esperienza con atti inaspettati, spontanei e improvvisi, intesi a sbloccare il processo di pensiero concettuale. Il maestro, alla domanda dell’allievo che vuol raggiungere l’Illuminazione, risponde ferendolo con un colpo di bastone (Arena, 1983).



BIBLIOGRAFIA

Aite, P., “Paesaggi della psiche. Il gioco della sabbia nell’analisi junghiana”, Bollati                     Boringhieri, 2002.
Arena, L.,”La pratica del buddismo Zen nella psicoterapia”, Studi Urbinati,
   B/2 (1983), pp.111-135.
Arena, L., “Del nonsense tra Oriente e Occidente”, Ed. Quattroventi, 2000  
    (cap.2 e appendice).   
Brandler, R., Grinder, E.,J., “La metamorfosi terapeutica“, Ubaldini, 1980.
Cantelmi, T., Pensavalli, M., “Oltre la gabbia del panico”, Perdisa editore, 2005.
Carotenuto, A., "Trattato di psicologia della personalità", Raffaello Cortina, 1991.
Cobb., N., “Maestri per l’anima”, Moretti e Vitali, 1999.
De Luca Comandini, F., Mercurio, R., “L' immaginazione attiva. Teoria e pratica nella                psicologia di C. G. Jung”, La Biblioteca di Vivarium, 2002.                                                                         
“DSM IV”, Masson, 1999. 
Freud, S., “Pulsioni e loro destini”, Boringhieri, 1976.
Godfryd, M., “Dizionario di psicologia e psichiatria”, Newton editore, 1994.
Hillman, J., “Anima. Anatomia di una nozione personificata”,Adelphi, 2002.
Hillman, J., “Il codice dell’anima”, Adelphi, 1997.
Montesarchio, G., et al., “Indizi di colloquio”, Franco Angeli, 2004 (pg.25).
Murjel, J., Jongeward, D.,"Nati per vincere", Ed.Paoline, 1980.
Nardone, G., “Oltre i limiti della paura”, Rizzoli, 2000.
Ruggieri, V., “Mente, corpo e malattia”, Pensiero scientifico editore, 1987.
Suler, j., “Paradox in psychological transformations”, International journal of
   psychology in the Orient, 32(1989), pp.221.
Venturini, R., “Coscienza e cambiamento”, Ed.Grin, 1993.
Neri C., "Gruppo"  Borla, 2004.


Per le dissertazioni sullo Zen si veda: Serra, T.C.,“Vivere Zen”, Xenia edizioni, 1998


Un ringraziamento particolare va al Prof. Riccardo Venturini, già Ordinario di Psicofisiologia Clinica presso l’Università “La Sapienza” di Roma, grazie al quale è stato possibile realizzare il presente lavoro.







lunedì 16 settembre 2013

PREMIO NAZIONALE DI FILOSOFIA



sezioni

Sezione AAforismi, si partecipa con un minimo di 3 e un massimo di 10 Aforismi da inviare all’indirizzo e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com

Sezione B - . Haiku, si partecipa con un minimo di 3 e un massimo di 10 Haiku da inviare all’indirizzo e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com

Sezione C - Paradossi, si partecipa con un minimo di 3 e un massimo di 10 Paradossi da inviare all’indirizzo e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com

Sezione DEpitaffi,  si partecipa con un aforismo (il termine è voluto), o brevi versi poetici adatti ad essere iscritti su di una lapide tombale. Si accettano anche epitaffi ironici. Inviare l’epitaffio all’indirizzo e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com

Sezione ESaggio filosofico, possono curare l’invio dei saggi sia gli editori (2copie) che,direttamente gli autori. Inviare il saggio all’indirizzo: Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, via Del castello, 27- 50052 Certaldo (FI).



Sezione FRivista filosofica, possono curare l’invio delle riviste sia gli editori (1 copia) che,direttamente le Redazioni. Inviare la rivista all’indirizzo: Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, via Del castello, 27- 50052 Certaldo (FI).


Sezione GArticolo filosofico, l’invio dell’articolo (edito o inedito), può essere effettuato direttamente dagli autori (2 copie). Inviare l’articolo all’indirizzo e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com o/e all’indirizzo postale: Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, via Del castello, 27- 50052 Certaldo (FI).

Sezione H Premio Speciale di Filosofia,  il vincitore sarà scelto direttamente dalla Giuria del Premio Nazionale di Filosofia.

Sezione I - Premio Ricerca Accademica, si partecipa inviando un  curriculum con indicazione dei meriti in questo ordine :

1 . Numero di libri pubblicati da editori nazionali e stranieri. Indicare i titoli di riferimento .
2 . Numero di articoli pubblicati su riviste. Indicare i titoli di riferimento .
3 . Capitoli pubblicati in saggi,  traduzioni, recensioni, voci enciclopediche, lezioni frontali e simili


Sezione L Premio Pratiche Filosofiche, Possono curare l’invio dei lavori, laboratori, eventi e altri materiali, sia associazioni, centri, che direttamente i filosofi che si occupano di pratiche filosofiche. Inviare i materiali  all’indirizzo e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com o/e  all’indirizzo postale: Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, via Del castello, 27- 50052 Certaldo (FI).

Sezione M Evento Filosofico, possono curare l’invio di segnalazioni di eventi (festival, spettacoli, manifestazioni e rassegne), organizzati in ambito filosofico, sia gli organizzatori, che i partecipanti agli eventi.  Inviare le segnalazioni all’indirizzo e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com o/e  all’indirizzo postale: Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, via Del castello, 27- 50052 Certaldo (FI).


  
Regolamento


1 - La segreteria si riserva di cestinare quelle opere illeggibili o prive dei dati richiesti.

2 - Ogni autore deve inviare unitamente alle opere un curriculum contenente i dati anagrafici, indirizzo, il numero telefonico , l’indirizzo email e la copia della ricevuta di versamento di € 10,00 . Il tutto va spedito entro il 30 gennaio 2014 all’indirizzo e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com o/e all’indirizzo postale Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, via Del castello, 27 – 50052 – Certaldo (FI).



3 - Quota partecipazione - Le quote di partecipazione di Euro 10,00 (è possibile partecipare a più di una sezione), dovranno pervenire a mezzo di un versamento sul c/c n. 93977379 del BancoPosta intestato a Mario Guarna codice IBAN IT95 H076 0102 8000 0009 3977 379.

4 – Le opere prime classificate per ogni sezione, verranno pubblicate sul sito www.confilosofare.com.

5 - Ogni partecipante al premio riceverà il verbale del concorso, e tutte le eventuali relative informazioni.

6 - Il premio deve essere ritirato personalmente o da un delegato il cui nome deve essere indicato alla segreteria tramite lettera o e-mail, se il premio non verrà ritirato, decadrà la partecipazione.

7 - La Cerimonia di Conferimento dei Premi si terrà a Certaldo, tra fine aprile e maggio 2014, nell’ambito di un Convegno di studi filosofici, alla presenza della Giuria e di altri qualificati studiosi.

8 - L’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, in qualità di Ente ideatore e promotore ed organizzatore dell’iniziativa, curerà la compartecipazione dei altri Enti pubblici e privati, al fine di poter accrescere le sezioni del Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del Pensiero”.


  
Premi

Ai primi classificati delle sezioni A – B – C – D verrà assegnato targa e pergamena. Premi offerti dagli sponsor del premio. Pubblicazione delle opere sul sito www.confilosofare.com.

Ai secondi classificati delle sezioni A – B – C – D verrà assegnata una targa e pergamena. Premi offerti dagli sponsor del premio. Pubblicazione delle opere sul sito www.confilosofare.com .

Ai terzi classificati delle sezioni A – B – C – D verrà assegnata una targa e pergamena. Premi offerti dagli sponsor del premio. Pubblicazione delle opere sul sito www.confilosofare.com. 


Le prime venti opere finaliste delle sezioni A – B – C – D, verranno pubblicati in un volume edito dalla Casa Editrice Sillabe di sale.


Ai primi classificati della sezione E – F – G – H – I – L - M verrà assegnata una targa e pergamena. Premi offerti dagli sponsor del premio.



Termine di consegna 30 gennaio 2014


Per eventuali informazioni rivolgersi allo 0571.1720796 e-mail premionazionaledifilosofia@gmail.com o visitare il sito www.confilosofare.com

domenica 8 settembre 2013

Riflessioni sul Senso della Vita

Alessandro Bertirotti, laureato in Pedagogia e diplomato in pianoforte, è scrittore, ricercatore, docente universitario. È l'unico docente italiano di Antropologia culturale che si occupa di Antropologia della Mente.

È socio fondatore e vice presidente della ANILDA (Associazione Nazionale per l'Inserimento Lavorativo e l'emancipazione dei Diversamente Abili) con sede a Milano. È presidente dell'Associazione Culturale Opera Omnia, che si occupa di comunicazione culturale e scienze esoteriche. Fa parte di Comitato Scientifico del Centro Studi Internazionale Arkegos di Roma. E' membro dell'International Institute for the Study of Man di Firenze, dell'A.I.S.A. (Associazione Interdisciplinare di Scienze Antropo-logiche) e della Società di Antropologia ed Etnologia di Firenze. È direttore scientifico della collana Antropologia e Scienze cognitive per la Bonanno Edizioni, e membro della Direzione scientifica della Rivista scientifica on-line www.neuroscienze.net. E' autore di numerose pubblicazioni.

Per la completa bio-bibliografia: www.bertirotti.com

 

 

Carissimo Ivo,
Le faccio presente che, in nome della sincronicità di Jung e della “Divina Provvidenza”, secondo una analoga ma cristiana interpretazione, degli eventi vitali, quello che mi ha chiesto è “tutto” inserito nel mio ultimo libro,La mente ama. Per capire ciò che siamo con gli affetti e la propria storia, uscito in Aprile 2011 e già in seconda edizione, per Il Pozzo di Micene Editore, Firenze. Troverà dunque i riferimenti costanti e continui al testo, che appunto sembra essere stato persino scritto con la volontà di rispondere alle Sue domande!

 

    Alessandro Bertirotti

 

 

1) Normalmente le grandi domande sull’esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo, che cos’è per lei la felicità?

Nell’ultimo mio testo, La mente ama. Per capire ciò che siamo con gli affetti e la propria storia, Il Pozzo di Micene, Firenze, nel 3° capitolo, Più veloci del tempo, dico a pag. 93: “Senza fiducia nelle proprie azioni non è possibile progettare alcunché nella propria vita, e dunque non è possibile entrare nell’esistenza. Nel momento in cui si capisce l’importanza di questa considerazione, che è, come già detto, il frutto di un lungo periodo di travaglio mentale, in cui si compiono numerose azioni anche contraddittorie, si verifica in effetti un salto in avanti notevole. Quando ci si rende conto che forse il segreto più importante di quella cosa che sentiamo dire essere la felicità, consiste nell’attribuzione di senso alle proprie azioni, la nostra vita si trasforma repentinamente in esistenza”. E nell’ultimo cap. il 5°, Diventare quello che siamo o rimanere così, descrivo anche come nella nostra mente organizziamo, giorno dopo giorno, la nostra infelicità, come fossimo padroni solo del nostro passato senza esercitare la funzione dellasperanza. Quest’ultima è espressione di un atteggiamento biologico umano primigenio, che non ha a che fare esclusivamente con la dimensione teistica del vivere, ma si riferisce alla autostima, perché è la stima verso se stessi che permette la formazione di progetti di vita futuri. Ecco che la speranza è un ingrediente fondamentale della motivazione. E senza speranza non vi è reale felicità, ma solo simulacri di essa.

 

2) Professore Bertirotti cos’è per lei l’amore?

“L’amore è funzione vitale dell’uomo senza la quale non vi è evoluzione individuale né di specie” (Bertirotti A., La mente ama(…), pg. 7). “In natura esistono la vita e la morte, che sono due eventi strettamente connessi fra loro. La vita comprende implicitamente l’idea della morte e la morte desidera la vita, e tutte e due si rincorrono in un perfetto gioco di rigenerazione continua. Gli esseri umani, avendo paura di questo gioco, hanno escogitato, con l’aiuto della biologia, un modo di affrontare questa situazione pericolosa: si sono fatti conquistare dall’amore (Bertirotti A., idem, pg. 10). Facciamo un esempio di come l’Amore sia una funzione cognitiva e non emozionale solamente: “Noi che siamo complessi e a volte anche complicati, possiamo decidere con coscienza come considerare lanatura ed il cielo. Ad esempio, la mia idea che il cielo sia silenzioso e non finito dipende da quello che io penso di lui. Ma io posso pensare qualcosa circa il cielo quando, superata la prima impressione, stabilirò con lui anche una vera, seppur breve, relazione d’amore. In altre parole, senza amore, tutte le cose che ci circondano non possiedono caratteristiche né qualità anche se crediamo di conoscerle. È l’amore che qualifica le cose del mondo e le persone, perché con esso attribuiamo un valore affettivo a tutto ciò che conosciamo (Bertirotti A., idem, pg. 14). In effetti, “con le cose del mondo e le cose che ci accadono possiamo stabilire solo due ordini di relazioni: di similitudine oppure di differenza, sia parziale che totale. Proprio perché non ho mai avuto la possibilità di spiccare il volo, non ho compiuto nessuna azione dentro il Cielo e non so dove inizi e finisca, lo valuto sulla base di un confronto con la mia esperienza quotidiana, il suono ed il limite. Il Cielo è per me una cosa sconosciuta e nel contempo misteriosa e stupenda, viva e presente, specialmente quando alzo gli occhi in alto e nascono in me il mistero, la meraviglia e l’infinità, tutti gli ingredienti essenziali dell’amore…” (Bertirotti A., idem, pg. 17).

 

3) Come spiega l’esistenza della sofferenza in ogni sua forma?

Sempre in riferimento al mio testo, affermo nel 2° cap. intitolato, Doloranti e complessi, che il “Il dolore non ha un senso, un significato. Esso è espressione di una distruzione, di una sofferenza, casuale, dalla quale però scaturisce la rinascita, il ritorno all’ordine. Il dolore è sempre disordinato, ma mettendo in allarme la nostra mente su qualche cosa che non funziona come dovrebbe, procurandoci sofferenza, ci può condurre verso la strada della ricostruzione. Nella nostra vita cerchiamo sempre di pianificare, ossia di mettere ordine alla successione degli eventi che caratterizzano il nostro essere nel mondo. A volte capita, direi anche spesso, di non riuscire a fare in modo che le cose vadano proprio come avevamo deciso. Siamo costretti a rivedere i piani, le nostre posizioni e le nostre convinzioni, perché il caso può entrare nei nostri progetti e sconvolgerli completamente. A volte ancora, questo caso può anche essere doloroso, ossia farci soffrire e sotto molti punti di vista, non solo fisicamente. Possiamo provare dolore in seguito all’insuccesso del piano messo a punto, con una sofferenza interna che deriva proprio dal vedere contrastata la nostra volontà. Siamo dunque costretti a fermarci per ragionare sul piano progettato inizialmente, per trovare possibili alternative al fine di raggiungere lo scopo. Spesso è necessario, dunque, fermarci per raccogliere le forze, ristrutturare il campo di azione e proseguire verso la meta. Ecco come la distruzione, il caos, il disordine, diventano motori indispensabili per la creazione di un ordine successivo, migliore e nuovo” (Bertirotti A., idem, pg. 62).

 

4) Cos’è per lei la morte?

“L’esistere è biologicamente legato al vivere, mentre quest’ultimo può essere presente senza che vi sia l’esistere. Una persona che chiede l’elemosina fuori da una Chiesa o da un bar (luoghi apparentemente diversi ma sostanzialmente identici, perché in entrambi vado a rifocillarmi di ciò che mi manca…) vive, non di certo esiste. Per esistere è necessario cercare di rispondere alle domande che ci pone la nostra coscienza con un progetto che oltrepassi almeno le ventiquattro ore.
Non è sufficiente per esistere essere coscienti di vivere, ossia di respirare, di poter camminare, dormire e così via. Per esistere è necessario diventare coscienti del perché si vive, e la risposta non la si trova quasi mai nella concretezza della nostra finitudine, che porta inevitabilmente al pensiero della morte, ma al di fuori del mondo.
Ludwig Wittegenstein, nel suo Tractatus, diceva che “il senso del mondo non è in questo mondo”. Ecco perché il farsi una tale domanda e in qualche modo trovare una risposta, è una conquista che, prima o poi, che lo si ammetta oppure no, ogni essere umano compie nel corso del proprio sviluppo personale.
Non si nasce con questa domanda già nella testa, né possiamo pretendere di avere subito la risposta, quando la questione nasce per la prima volta in noi, durante l’adolescenza” (Bertirotti A., idem, pg. 92).

 

5) Sappiamo che siamo nati, sappiamo che moriremo e che in questo spazio temporale viviamo costruendoci un percorso, per alcuni consapevolmente per altri no, quali sono i suoi obiettivi nella vita e cosa fa per concretizzarli?

Non dico nulla di nuovo, né di particolarmente originale, specialmente di questi tempi, se scrivo che stiamo attraversando un periodo davvero importante della nostra evoluzione generale, come specie Homo sapiens sapiens. È anche relativamente vero che in ogni epoca e luogo, sia della storia che della geografia umana, si sono avuti periodi e situazioni in cui si è avvertita netta la sensazione di attraversare importanti momenti dipassaggio.
Antonio Machado ci ricorda, in effetti, che siamo con un viandante su questa vita: «Viandante, sono le tue orme il sentiero e niente altro. Viandante, non c’è sentiero, diventa sentiero l’andare (Machado A., Viandante)».
E se aderisco a questa concezione del movimento, mi rendo conto che le mie azioni sono determinate dal moto del mio andare, ossia dalla consapevolezza del fine ultimo. Attuo, per così dire, una realizzazione teleologica del mio esistere, ossia reputo che il perseguimento dello scopo, di cui abbiamo parlato prima, diventi effettivamente la mia meta.
Affinché l’intera mia esistenza sia dunque un errare come ci consiglia Machado, è però necessario che la mia meta non sia facilmente raggiungibile e sia il più possibile presente anche dopo la mia morte. Se invece la meta è raggiungibile con l’adozione di comportamenti facili e repentini, non solo il mio ragionamento sull’esistenza si riduce a qualche cosa che trovo al supermercato, ma le mie azioni non entrano a fare parte della storia del mondo. Agisco solo per me, e dopo la mia morte tutta la fatica che ho impiegato per rispondere ai perché che interrogano il mondo non è servita a nessuno. È necessario che la mia meta sia dunque difficile, posta oltre la mia presenza fisica, ossia situata persino oltre la mia morte, affinché sino alla fine della mia vita io possa continuare a perseguirla.
È necessario, in altri termini, che la mia meta preveda un percorso doloroso per raggiungerla, perché senza questo frammento di dolore non saprò mai, e sino in fondo, quale valore possiede la mia meta, quale significato attribuirle. Solo quando percepisco la meta come sostanzialmente diversa da quello che io sono in questo momento, oppure da quello che io sono come essere umano, cercherò di raggiungerla davvero con tutte le mie forze. Se il fine ultimo di questo mio esistere è nell’essere qui ed ora, solo coscientemente, non posso lavorare per l’eternità, come dice spesso un mio maestro e amico, Vittorio Vanni. Se non mi percepisco diverso rispetto all’eterno, ma lo nego, considerandolo agnosticamente lontano dalle mie preoccupazioni mentali, tutte le mie azioni finiranno con la mia vita, perché ad essa sono indissolubilmente legate  (Bertirotti A., idem, pgg. 98-99).

 

6) Abbiamo tutti un progetto esistenziale da compiere?

Penso di aver esaurito l’argomento nella risposta precedente.

 

7) Siamo animali sociali, la vita di ciascuno di noi non avrebbe scopo senza la presenza degli altri, ma ciò nonostante viviamo in un’epoca dove l’individualismo viene sempre più esaltato e questo sembra determinare una involuzione culturale, cosa ne pensa?

“Il contare affettivamente per qualcuno, cosa che si ricerca per tutta l’esistenza, è come realizzare una reciproca dipendenza, grazie alla quale anche la propria solitudine acquista un significato” (Bertirotti A., idem, pg. 124). In questo contesto, anche la solitudine, che non deve confondersi con individualismo, può essere “il luogo” vero e proprio del cambiamento, del miglioramento verso una globalizzazione del cuore. Ecco, parlerei proprio di globalizzazione del cuore!

 

8) Il bene, il male, come possiamo riconoscerli?

Il sottotitolo del mio 4° capitolo recita: “Impariamo la differenza fra il benee il male se amiamo”. Nello stesso capitolo affermo. “Senza memoria non ci sarebbe apprendimento, ma il solo apprendere non è sufficiente per sviluppare la coscienza. Ricordare ciò che ci è accaduto, oppure è accaduto attorno a noi, è certamente importante per lo sviluppo mentale di una persona, ma il passaggio alla formazione della coscienza richiede qualcosa in più: la capacità di chiederci chi siamo e sapere il perché di ciò che accade.
Nel porsi questa domanda, ogni essere umano impara a ragionare sulla relazione che esiste fra le proprie azioni e quelle altrui, ossia fra ciò che egli pensa sia il frutto delle proprie scelte e ciò che dovrebbe appartenere alla volontà delle altre persone. Così nasce, quasi spontaneamente, lapercezione del positivo e del negativo che, nel corso degli anni, si trasformerà in bene e male.
Dalle ultime ricerche effettuate da un gruppo di ricercatori del MIT si è scoperto in quale zona del cervello avviene il funzionamento di questo processo valutativo. Nell’area prefrontale ventromediale della nostra corteccia risiede una popolazione di neuroni che svolge la funzione di valutare le intenzioni di una persona rispetto alle azioni che andrà a compiere, e nella stessa area, si registrano le reazioni emotive che queste azioni provocano in noi. In sostanza, in questa parte del nostro cervello avviene quel processo mentale grazie al quale si collegano le nostre reazioni emotive di fronte alle azioni che vediamo compiersi negli altri, e la nostra valutazione sulle intenzioni iniziali di coloro che appunto agiscono.
Queste ricerche non sono fine a se stesse, come potrebbe sembrare, perché ci dimostrano che tutti i nostri ragionamenti trovano una sede meccanica nel nostro cervello che, se compromessa per una serie di motivi, può limitare profondamente il funzionamento della mente. Nel caso che abbiamo appena citato, una compromissione di questa area cerebrale potrebbe essere la causa di quei comportamenti in cui le persone non sono in grado di pensare alle conseguenze delle proprie azioni, specialmente di tipo morale. Se io non sono in grado di valutare le intenzioni di un omicida perché non ho nessuna reazione emotiva di fronte all’uccisione di una persona, significa che posso giungere a legittimare l’azione aggressiva che toglie la vita ad una persona.
Resta comunque ancora un problema, rispetto a questa scoperta: perché, in alcune circostanze, l’essere umano sceglie il male, il negativo, anche se la propria coscienza dovrebbe condurlo al bene? In altre parole ancora, perché esistono persone che in alcune situazioni, nonostante la propria coscienza suggerisca loro di agire bene, scelgono il male e non il bene?
Avrei una risposta, che è di tipo cognitivo, perché si basa sui processi mentali che si attuano quando dobbiamo operare scelte esclusive, cioè assolute che sono molto importanti per noi e per coloro che ci stanno accanto.
Quando la nostra mente, pur sapendo dove risiede il bene in riferimento ad una precisa circostanza, sceglie il male, lo fa per avere dopo la possibilità di pentirsene (Bertirotti A., idem, pgg. 105-106).

 

9) L’uomo, dalla sua nascita ad oggi è sempre stato angosciato e terrorizzato dall’ignoto, in suo aiuto sono arrivate prima le religioni e poi, con la filosofia, la ragione, cosa ha aiutato lei?

La costante riflessione dovuta ad una difficoltà ad accettare come normale tutto ciò che era ovvio, e questo fin dall’adolescenza. Oltre a tutto ciò, il rapporto fin da giovanissimo con la musica, sono stato un pianista, ha stimolato l’introspezione, che è una competenza mentale di indubbio valore evolutivo. Credo inoltre che solo l’arte, sia essa linguistica, poetica, pittorica, scultorea, coreografica o musicale ci mette in comunicazione concreta, fattiva, con l’ignoto che si trasforma, come dico anche in questo caso nel mio libro, in mistero. E nel mistero si entra tutti, mentre nell’ignoto si resta fuori tutti. Il mistero accoglie ma l’ignoto separa e divide.

 

10) Qual è per lei il senso della vita?

Essere, come direbbe Emily Dickinson, la mia amata amante, l’”indistinto dividendo del trasporto brevettato da Adamo”.




Intervista di Ivo Nardi (Riflessioni.it) ad Alessandro Bertirotti   settembre 2011