lunedì 14 ottobre 2013

Eliminiamo il tempo

La rubrica di Affari "E l’antropologo della mente?", a cura di Alessandro Bertirotti

Venerdì, 11 ottobre 2013
Visto le cose come vanno, e non solo nel nostro Paese delle Meraviglie ma nel mondo intero, penso che sia venuto il momento di proporre un'idea che sembra provocatoria ma che in realtà potrebbe rivelarsi decisamente innovativa.
Chiedo a tutti di ragionare su questa possibilità: eliminiamo dalla nostra mente l'idea del tempo che scorre.
Sì, sembra qualcosa di molto strano, e persino impossibile, eppure ritengo che questa assenza di idea del tempo possa permetterci di fare tutti insieme un passo in avanti, antropologicamente parlando.
Vediamo, in sintesi, cosa ha prodotto in noi l'idea di tempo: a), ogni cambiamento della nostra vita, in quanto cambiamento, viene da noi inserito in un "prima" e in un "poi", inducendoci a formulare così giudizi affrettati sul cambiamento stesso. In effetti, affermando che nel "poi" siamo migliorati, significa che possiamo ritenerci soddisfatti di tale miglioramento, non calcolando che quest'ultimo traguardo non possiede il carattere di essere definitivo, perché possiamo migliorare ancora oppure, persino, peggiorare; b) la nostra mente è progettuale, dunque non possiamo fare a meno di proiettare la nostra idea di noi stessi in quello che deve ancora accadere, definendo implicitamente la situazione presente come insoddisfacente,altrimenti non progetterei nulla di diverso da quello che sono, oppure che credo di essere; c), proprio perché siamo "esseri viventi coscientemente progettuali" crediamo di poter desiderare cose realizzabili, sia con la volontà che con le motivazioni personali, confondendo la volontà stessa con la eventualità di riuscire nel nostro scopo.
Vi sarebbero altri comportamenti mentali che sono il frutto dell'idea di tempo, così come siamo soliti impiegarla nella nostra vita, ossia secondo quello che affermava già il filosofo greco Aristoteleil tempo è la misura del movimento secondo il prima ed il poi. Non voglio però qui soffermarmi su altre considerazioni, ma proseguire il ragionamento su quanto appena proposto.
Se fossimo nelle condizioni di poter eliminare dalla nostra mente le idee che ho espresso nei tre punti appena descritti, potremmo forse abbandonare l'idea presuntuosa legata al possesso delle nostre intenzioni,come se fossero davvero nostre.
Potrei, in assenza di queste tre convinzioni, per esempio, cominciare a pensare che ogni mia progettazione verso il futuro (che desidero che esista, senza nessuna garanzia scientifica che sia veramente possibile…) dipende essenzialmente da quello che mi accade nella vita, dalle persone che frequento e da quelle che non conosco ancora, e mai conoscerò. È assai probabile che proprio nelle loro mani risieda il mio successo, la mia riuscita nella vita, senza che io ne venga mai a conoscenza. Potrebbe in questo modo nascere in me la necessità di progettare la mia vita in relazione a tutti gli altri, a tutte le cose che non vedrò più quando sarò morto… ma potrei morire davvero? Sì, questa è l'unica certezza del tempo, quella per cui la mia vita è percepita lunga o breve solo sulla base di quanto amore riesco a dare e ricevere, senza calcolare che quando si riceve si dona sempre, perché ci si mette nelle condizioni di riceveredonando la nostra stessa accoglienza.
Ecco, eliminare l’idea del tempo come frutto della nostra volontà proiettata verso il futuro, credendo che in questo modo possiamo dimostrare a noi stessi che siamo noi gli artefici del nostro destino, significherebbe liberarci persino dall'idea che la storia passata sia solo il risultato della responsabilità di chi ci ha preceduto.
È probabile che persino il passato viva in me con una tale presenza da modificarlo continuamente, e, se ci pensiamo bene, quando si ama il tempo non ha inizio né fine…
L'AUTORE - Alessandro Bertirotti è nato nel 1964. Si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l'Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia Generale presso la Facoltà di Architettura dell'Università degli Studi di Genova e Psicologia del rischio presso la Facoltà di Ingegneria di Palermo. Il suo sito è www.alessandrobertirotti.it

giovedì 3 ottobre 2013

L’Illusione della Sicurezza

Quella in cui cadono gli avari, in definitiva, è un’illusione di sicurezza.
Attraverso quell’accumulo infatti, trovano protezione e riparo rispetto dal lato transitorio e insicuro dell’esistenza, che non accettano.

L’avarizia nella tradizione religiosa è uno dei 7 peccati capitali, e consiste nella tendenza ad accumulare beni o denaro fini a se stessi.
Freud, invece, riconduce l’avarizia alle prime esperienze del bambino di ritenzione delle feci: dal piacere di “trattenersi” si passa al piacere di trattenere beni e denaro.
L’avaro è colui che ignora la qualità di quanto accumulato, derivando il suo piacere solo dall’accumulo in sé, che non ha alcuna mèta ne alcun senso.  Anche il denaro, ad esempio, ha valore e senso se ci permette di essere speso, di comprare, altrimenti perde il suo “valore”, ed è quello che capita agli avari.
L’accumulo diventa, allora, solo un filtro attraverso il quale guardare la realtà e il mondo, nel quale l’avaro strutturerà la sua identità esclusivamente sull’avere, e dove le cose che non si possono comprare perderanno completamente d’importanza: da lì la difficoltà nell’amore e nelle relazioni.
Gli avari, trattenendo presso sé beni e denari, cadono in un illusione: quella della sicurezza. Attraverso quell’accumulo infatti, trovano protezione e riparo rispetto al lato transitorio e insicuro dell’esistenza, che l’avaro non accetta.
Sul carattere transitorio è imperniata tutta la cultura orientale, in particolare lo Zen, dove il Mandala rappresenta proprio questo: un disegno formato da sabbia, che una volta terminato, si distrugge semplicemente ricordando la caducità delle cose, concezione questa molto distante da quella occidentale e assolutamente lontana dalla concezione di un avaro.
Egli diventa colui che non sa dare; che non sa vivere senza sicurezza, senza il programmare, e che quindi ignora l’esistenza in sé, che è apertura verso l’imprevisto.
Tra l’avaro e il mondo v’è la barriera dei suoi averi, che gli danno quella sicurezza che le relazioni e la vita non garantiscono: non accettando il carattere effimero dell’esistenza, si ritira dal mondo che non offre stabilità, rifugiandosi nei suoi averi che sono la sua unica sicurezza.
Purtroppo per accumulare si finisce per rinunciare a sé e alla propria piena realizzazione come individuo. Ecco perché Marx affermava: “quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai”, ed è questo il prezzo che gli avari pagano: se stessi in cambio di un effimero accumulo di beni materiali.


Articolo ampliato da “L’avarizia rovina la vita,  ma uscirne si può” pubblicato sul mensile “Dimensione Benessere” Ottobre 2013 n.7 Anno I, curato dallo psicologo Stefano Coletta