martedì 3 giugno 2014

Quando una crisi non è un'opportunità: la coincidenza con ciò che si vorrebbe superare

Contributo del Prof. Federico Sollazzo al Ciclo di incontri "Il tempo del conflitto"

… non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca
M. Heidegger
Federico Sollazzo

Ritenere – come da più parti avviene, spesso anche a prezzo di inflazionamenti banalizzanti del discorso – che oggi si viva in un sistema di manipolatoria eterodirezione della vita, di predeterminata produzione della stessa, significa ritenere che vi sia l’esercizio di una pressione sull’individuo che gli impedisce di poter essere autodeterminato, libero, autentico. Ma ciò significa ritenere anche – ed è questo che vorrei qui problematizzare – che tale individualità sia ancora, almeno potenzialmente, eccedente rispetto alla situazione data, poiché proprio nello scarto dal già dato si colloca la sua autonomia; è ancora possibile affermare questo scenario? O siamo oggi in una nuova fase di eterodeterminazione dell’individualità in cui non si dà più lo scarto tra questa e il sistema che la contiene? In tali termini non è più necessaria alcuna operazione di colonizzazione dell'individualità, di produzione della soggettività, poiché questa già aderisce completamente al sistema in cui è posta.
Innanzitutto vorrei prevenire alcuni possibili fraintendimenti. Sollevando il problema dell’eterodeterminazione non intendo né avallare teorie complottiste (buone per chi desidera spiegazioni fumettistiche della realtà), né intendere che l’optimum sia l’autonomia assoluta, la totale libertà da tutto e tutti, questa è infatti una condizione esistenziale, oltre che impossibile poiché la vita è sempre condizionata da ed in contingenze specifiche, non auspicabile in quanto indica verso l’eliminazione del mondo (Benjamin asseriva fosse una posizione “di destra”),.
Con eterodirezione intendo invece una determinazione della vita che non viene lasciata libera di espandersi autonomamente – fermo restando che un’autodeterminazione si esercita sempre dentro ineludibili contingenze relazionali che la influenzano – ma che è indirizzata, vincolata verso forme e modalità prestabilite.
Terminologicamente, va inoltre notato come per condurre tale argomentazione sia preferibile l’uso dell’articolo indeterminativo: unaautodeterminazione. Questa infatti non è mai l’unica possibile ma sempre una possibile autodeterminazione, dato che la sua forma (individuale e collettiva) è – dovrebbe essere; lo è ancora? – il risultato di una scelta che si esercita di volta in volta e non un assoluto da replicare eternamente uguale a se stesso.
Tornando alla eterodeterminazione così come qui la intendo, la si può allora caratterizzare come l’esito influente dello spirito dei tempi dentro cui, volenti o nolenti, consapevoli o meno, ci si trova a vivere; heideggerianamente come il portato dell’Essere, che infatti non è semplicemente congiunto al- ma è tempo.
Se questo è il quadro di riferimento, dobbiamo allora chiederci chi sia l’Essere della nostra epoca, il soggetto che determina la vita di chi vive in questo tempo. E, a dispetto delle semplificazioni che mass-media e gruppi di potere continuamente propagandano, tale soggetto non lo si troverà né nella dimensione politica né in quella economica. Inoltre, non si tratta neanche di un soggetto identificabile. Esso è infatti impersonale. È la razionalità strumentale – come hanno focalizzato per primi, ciascuno nei propri termini, gli autori della prima Scuola di Francoforte, Adorno, Horkhemier e Marcuse, ma anche Benjamin e Pasolini e ovviamente Heidegger, e si badi che questo tema era già all’opera all’interno del nazismo se Arendt descrive Eichmann non come un mostro ma come un egregio professionista, un perfetto funzionario funzionale al suo sistema di riferimento, proprio come l’odierno manager.
L’avvento della razionalità strumentale, evidentemente un precipitato dello sviluppo tecnologico da cui non siamo stati in grado di impermeabilizzarci, offre una conferma (nefasta) della hegeliana dialettica servo-padrone, che respinge ogni Marx reinassance. Infatti, l’apice dello sviluppo del capitale è determinato dal fatto di essere il capitale stesso l’Essere: il capitale schiavizza la tecnica per potersi incrementare e moltiplicare con efficienza, il capitale è il padrone, la tecnica il servo. Un servo che poi (peraltro in tempi molto rapidi) hegelianamente prende il sopravvento sino a diventare il padrone, heideggerianamente l’Essere, e il capitale il servo. Basti pensare al fatto che oggi, senza un adeguato supporto tecnologico, il capitale non si muove. Ecco perché la sola critica dell’economia politica non è più in grado di restituire la nostra epoca. È oggi indispensabile una critica della razionalità strumentale.
Bene, a proposito di quest’ultima si è detto che è impersonale e al tempo stesso dominante. E tuttavia è impersonale se la consideriamo come una forma di razionalità in sé conclusa, ma non lo è se consideriamo i suoi rappresentati e agenti, gli oggetti tecnologici. Sono questi che, circondandoci, continuamente ripetono i suoi principi. Trova così conferma sia la teoria pasoliniana della pedagogia delle cose che la concezione foucaultiana della microfisica del potere, inteso come rete di relazioni. Si può così ora specificare meglio la natura di questa eterodeterminazione: essa dà luogo ad un controllo eteronomo non solo nella misura in cui preorienta atteggiamenti, comportamenti, ragionamenti, bisogni e desideri – repetita iuvant: non semplicemente interagisce con-, ma pre-orienta l’uomo, ergo produce individui – ma anche e soprattutto nella misura in cui l’uomo non ha più alcun controllo su tale preorientamento, coincidendo ormai la sua individualità con la razionalità strumentale; egli quindi non è più il soggetto della storia, del tempo che abita (Galimberti, Severino) ma, in un rovesciamento hegeliano, l’esecutore del nuovo Essere (nonostante, o meglio proprio in virtù del fatto che non problematizzi tale questione). La razionalità strumentale, calcolante, efficientista esercita dunque un indirizzamento eteronomo sia in un senso verticale (dominio) che orizzontale (relazioni), la sua onnipervasività è così completa. La sua definitività sta nel fatto che, a differenza delle precedenti fasi della civilizzazione occidentale, essa produce rapporti sociali immodificabili, dunque, antropologicamente, un irreversibile nuovo tipo d’uomo, che non ha più le stesse caratteristiche del precedente e che non occupa più la stessa posizione del precedente – da empatico ad anaffettivo, da soggetto della storia ad appendice del nuovo soggetto della storia. Non si tratta quindi di una fine della storia tout court (Fukuyama), ma della fine di una certa storia, quella di un certo vivente e dell’inizio di una certa altra storia, di una “Dopostoria” (Pasolini).
A scanso di equivoci, non si tratta qui certamente di essere tecnofobi né di aspirare al ritorno a condizioni di vita pre- o paleo-tecnologiche, ma di fissare con lucidità quel certo tipo di relazione che intratteniamo con la razionalità tecnologica e che ne fa l’Essere del nostro tempo. Tale relazione è qui sotto accusa, ovvero, il soggetto ad essa assuefatto che la invera lasciandola accadere, e non la tecnologia in sé.
Ed eccola, brevemente affrescata, la forma di eterodirezione cui siamo assoggettati, che reifica gli individui sotto forma di clichémisurabili e interscambiabili, esecutori di funzioni (Ghelen) non solo quando svolgono un lavoro – sulla cui natura e scopi finali si è del tutto deresponsabilizzati: uno strumento esegue e basta – ma anche ed a partire dalla complessiva personalità, che altro non è che l’indossare lo stereotipo di un personaggio: la madre e donna, la donna in carriera, il maschio atletico, il capitano d’industria (prima) o il manager rampante (poi), l’intellettuale, nelle varianti del serioso e del faceto, la giovane coppia che risolverà ogni vicissitudine con l’amore, ecc., il tutto integrato con una modificazione architettonico-urbanistica finalizzata all’esposizione di tali modelli, con palazzi costituiti da vetrate e open space interni.
Ora – e questo è il punto dirimente – tali condizionamenti sono stati introiettati al punto tale che ormai, con un paradosso che è solo apparente, non si può più neanche più parlare di introiezione, perché essa presupporrebbe un’interiorità individuale distinta e autonoma dal mondo esterno, cosa che oggi non è, essendosi realizzata la coincidenza dell’individualità con le condizioni della propria eterodeterminazione (ed ecco spiegato il titolo di questo breve intervento). L’eterodirezione scompare sotto la forma di uno “spontaneo” modo di vivere.
Prova ne sia il fatto che oggi la richiesta più “sovversiva” che viene espressa è quella di non essere disoccupati e che nel lavoro siano contemplati i diritti sindacali. Se tale richiesta non è associata alla comprensione dello scenario in cui è dato vivere e alla tensione al trascendimento di questo, altro non è che la richiesta di panem condito con un po’ di circenses. L’esito di tale dinamica – che continua a sfuggire a chi professando un illuminismo, un liberalismo, un progressismo astorico, non si avvede di come essi siano oggi diventati vettori di conformismo – è che richieste originariamente progressive, perché dirompenti in statu quo ante, vengono codificate in diritti che veicolano conformismo, sotto forma di adattamento in statu quo nunc. In un regime di conformismo, la realizzazione di diritti che consentono l’accesso a tale regime non fa altro che promuovere chi li ottiene al rango di “conformato”. A conferma di ciò, si osservi come la lotta, oggi tanto à la page, per i diritti dei non eterosessuali – la cui discriminazione è un atto di barbarie, ma non è questo il punto dirimente –, sia divenuta nient’altro che un modo per annettere anch’essi all’ordine stabilito delle cose, con la peculiarità che sono essi stessi, proprio come Mamma Roma di Pasolini, a supplicare per loro stessa Anschluss.
Declinando la questione in termini politici, si osserva che il segno che garantirebbe della bontà della società esistente è il suo (presunto, poiché solo formale) pluralismo. La pluralità dei partiti politici, dei mezzi d’informazione, dei comportamenti possibili, delle offerte d’intrattenimento, costituisce il mantra delle democrazie occidentali liberali con il quale si vuole affermare la loro radicale discontinuità rispetto ai totalitarismi storici. Peccato che ci si dimentichi sempre di osservare come il pluralismo misuri la quantità di un qualcosa, non la sua natura, non la sua qualità. Se si osservasse quest’ultima, invece, non sarebbe difficile notare come le alternative pluralistiche offerte dall’occidente liberale altro non sono che una lista cliché, dunque un pluralismo meramente formale e nominale che copre –  neanche tanto bene, eppure in maniera bastante per diventare ideologia – un’unidemensionalità sostanziale. Ne deriva che questa specie di cultura democratica favorisce l’eteronomia sotto la specie dell’autonomia, e che un tale tipo di pluralismo in realtà milita contro l’autodeterminazione. Ecco perché appare necessario traslare il concetto di totalitarismo da un piano storico ad uno filosofico, rendendolo una categoria concettuale con cui si descrive (indipendentemente dalle sue forme storiche) una determinazione eteronoma della presunta autodeterminazione, presunta, perché evidentemente in questi termini non è più tale.
Certamente si apre qui il problema di se e come possa allora esercitarsi un’autodeterminazione – ed anche il problema del se esista una possibile autodeterminazione o se invece, secondo la provocazione spinoziana di Zizek, “siamo liberi solo nella misura in cui non riusciamo a cogliere le cause che ci determinano”.
Varie risposte sono state date, ognuna nei suoi propri termini: il dialogo solitario con se stessi, con il proprio daimon (Socrate), il giudizio di fronte al tribunale della propria ragione (illuminismo) e sensibilità (romanticismo), l’etica dell’epimeleia seauton, della cura di sé (Foucault), l’eccedenza dal già dato, che promette la bonheur (Marcuse), la ricerca dell’unicità e dell’irripetibilità. Tutti queste prospettive sono puntati in direzione della comprensione/costruzione di se stessi, ergo dell’autodeterminazione. E tuttavia mi sembra che esse condividano un medesimo rischio (del quale, a dire il vero, mi sembrano ben consapevoli Marcuse e Pasolini, che infatti hanno portato a tema la questione del “rifiuto”): la mancata considerazione di cosa accade quando tali progetti etici sono condotti con “materiale da costruzione” viziato senza, peraltro, che il costruttore se ne avveda – come accade proprio nella nostra epoca, ad opera della razionalità tecnologica che predetermina il campo e gli strumenti del ragionare. Ma, a conferma del fatto che qui non si tratta certo di essere tecnofobi, è da affermare con forza come questo problema si presenti quale che sia il cosiddetto spirito dei tempi, sebbene nella sua connotazione odierna abbia raggiunto, a causa di una certa relazione che intratteniamo con questo, il massimo livello di pervasività. Come uscire da questa impasse?
Esercitando il negativo (il rifiuto, il no). Infatti, perseguendo la realizzazione di un’individualità, di una soggettività, di un’alterità in termini affermativi, si è costantemente esposti al rischio di continuare a muoversi dentro il perimetro dell’ordine stabilito delle cose, che ha ormai assorbito anche le figure della differenza – si pensi al cliché del ribelle o del rivoluzionario, ridotti a personaggi (accessoriati di tutto: dall’abbigliamento al modo di portare barba e capelli, dal linguaggio ai consumi, dai divertimenti alle idee da contestazione/conversazione), maschere che devono semplicemente essere indossate. Diversamente, con un movimento di sottrazione dal, con una dinamica di rifiuto del paradigma affermativo vigente, qualsiasi esso sia, si accede ad un territorio di pura negatività, unica dimensione in cui è possibile generare qualcosa di originale e autentico. Per evitare i cliché delle differenze ormai integrate al sistema, e praticare una negatività che sia effettivamente tale, l’atteggiamento “etico-esistenziale” da adottare verso l’esistente lo definirei come quello di una consapevole indifferenza.
Certo, anche in un simile scenario nulla garantisce che quel che si sia creato per tal via non venga poi ricondotto all’ordine stabilito delle cose, riducendolo in un cliché – basti vedere le iconizzazioni standardizzanti di intellettuali che hanno invece sempre combattuto contro dinamiche di omologazione massificante, di produzione seriale di soggettività, da Pasolini a Foucault – ma ciò non annulla la validità di questo percorso, ma testimonia di come, da un lato, questa traiettoria sia ripercorribile da ogni generazione, anzi da ogni nuovo nato e, dall’altro, di come la dimensione dirimente da cui tutto, nel bene e nel male, prende corpo sia quella dell’individuo.

FONTE liberaparola.eu 

lunedì 12 maggio 2014

NOTE SULLA MODERNITA'

Di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

(Si pubblica di seguito il testo della lettera inviata alla Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche di Certaldo in occasione del conferimento, in data 20/05/2012, del Premio Speciale per la sezione Saggio Filosofico al Premio Nazionale di Filosofia 2012, al volume: Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, Presentazione di M. T. Pansera, Aracne, Roma 2011)

Trovandomi all’estero, come il Presidente dell’ “Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche” dott. Mario Guarna sa, non mi è possibile partecipare alla cerimonia di premiazione di oggi, del Premio Nazionale di Filosofia. Mi trovo infatti al momento presso l’Università di Szeged (Ungheria) dove lavoro dal 2010. Il fatto che io lavori all’estero non per libera scelta, pur trovandomi bene, ma a seguito della scelta forzata derivante dal non aver potuto accedere ad analoga posizione in Italia, ed il fatto che simili condizioni siano condivise da non pochi miei più o meno giovani colleghi in pressoché tutti i campi scientifici, forse meriterebbe già di per sé una riflessione. In questa festosa circostanza però, mi limito ad inviare questa breve comunicazione, letta dal dott. Matteo Sollazzo, mio fratello e per l’occasione mio delegato, per partecipare, sia pure indirettamente, alla consegna del Premio Speciale per la sezione Saggio Filosofico all’edizione 2012 del Premio Nazionale di Filosofia, al mio volume Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, confidando che in futuro vi possa essere occasione per una diretta e personale collaborazione con la ANPF.
Il mio ringraziamento per il riconoscimento che mi è stato voluto dare nasce non solo dal premio in sé, ma anche dal fatto che tale riconoscimento contribuisce a dare maggiore eco a quello che è il proposito di fondo del volume stesso.
In epoca moderna assistiamo infatti all’intensificarsi del processo, in atto già da prima, di restringimento del significato delle parole, che diventano così didascalie. Le parole perdono sia la possibilità di contenere una pluralità di significati sia quella di essere metafore che altri possibili ne dischiudono, e vengono ridotte a definizioni il cui significato è uno e uno soltanto, univoco e seccamente immediato, così da favorirne l’operatività funzionale a chi propone/impone quella definizione. Se il senso della filosofia è quello di problematizzare ciò che appare come ovvio, allora sono oggi da porre sotto l’occhio della filosofia termini quali totalitarismo, democrazia, etica e pubblico, termini attorno ai quali, più di altri, ruota la costruzione della società e che pertanto sono terra di conquista, di colonizzazione e monopolizzazione da parte di interessi e poteri specifici; il fatto che possa sembrare superfluo e inutile problematizzare termini sul cui significato (didascalico e univoco) siamo ormai tutti d’accordo (più per assuefazione che per scelta consapevole), conferma invece quanto sia necessario portare avanti questa problematizzazione di termini (apparentemente) ovvi. Operazione che nel volume ho cercato di fare attraverso tre grandi ambiti argomentativi quali la Filosofia Morale, problematizzazione del comportamento, la Filosofia Politica, problematizzazione delle norme, e l’Etica, problematizzazione dei valori.
Per quanto la dimensione storica sia sempre importante, la prospettiva in cui mi muovo nel volume è fondamentalmente filosofica, ovvero, finalizzata ad analizzare quale uso è stato fatto di questi termini nella modernità (a larghe righe, dall’Illuminismo ad oggi), perché ne è stato fatto un certo uso, quali conseguenze esso ha determinato e, prevedibilmente, porterà.
Una delle osservazioni più rilevanti a cui si può arrivare tramite questo approccio, è quella di riscontrare come oggi si viva all’interno di un complesso e articolato sistema di controllo supportato da una molteplicità di vettori – il più significativo dei quali è colui stesso che ne è vittima –, che si vanta di un pluralismo che è però mera maschera della sua unidimensionalità. In altre parole, benché le grandi ideologie politiche del Novecento siano crollate, questo non significa che l’ideologia in quanto tale sia venuta meno, al contrario, essa si è aggiornata e quindi rafforzata, scartando (nella forma dell’assorbimento) le sue versioni obsolete ed adeguandosi allo scenario contemporaneo (che essa stessa disegna). Siamo così passati dall’ideologia politica, all’ideologia economica e, oggi, all’ideologia tecnologica, che a ben vedere è presente in nuce in tutte le precedenti. Ciò che rende possibile un sistema ideologico è la presenza di un mito, perché laddove c’è un mito, un telos, c’è uno scopo superiore, e laddove c’è uno scopo superiore, che orienta e dispone la vita, non ci sono persone (uniche e irripetibili) ma esecutori, funzionari (seriali e sostituibili). Come ho cercato di argomentare nel volume, ci troviamo oggi in un’epoca di transizione che, a differenza delle precedenti, non segna un semplice passaggio storico ma una svolta epocale, poiché l’ideologia contemporanea, e mi riferisco qui alla razionalità tecnologica, determina per la prima volta un cambiamento radicale nella struttura biologica ed emozionale dell’uomo, portando così a compimento quella mutazione antropologica avviata nel secolo scorso. L’uomo quindi, ammesso che lo si possa ancora definire tale essendo al tempo stesso un post- e un non-uomo rispetto al precedente, per la prima volta non è più il soggetto della storia ma un semplice accessorio, in qualità di funzionario, del nuovo protagonista della storia: la tecnologia (la cui elasticità le permette di continuare ad avanzare insinuandosi in ogni spazio, fisico ed esistenziale).
Qualsiasi sarà la risposta che daremo a questo scenario, essa dipenderà dalla nostra comprensione dello scenario stesso. In accordo con la tesi arendtiana sulla banalità del male, il peggior criminale è colui che accetta ciò che viene considerato ovvio senza porsi domande a riguardo. Una conclusione sulla quale meditare, per non ridurre le idee a didascalie e non ritenere la problematizzazione dell’ovvio come un divertissement o un gioco accademico ma una necessità e una responsabilità che riguarda tutti e ciascuno. E si potrebbe cominciare, magari, dalle parole totalitarismo, democrazia, etica.

Dott. Federico Sollazzo

venerdì 2 maggio 2014

IL MOSAICO DEL BUON SENSO


È difficile affrontare, in una sola opera, tutto lo scibile umano, trattando in particolar modo le emozioni, le attitudini ed i comportamenti sociali. Al contrario, “Il mosaico del buon senso” offre una panoramica ben articolata e strutturata su argomenti di vario genere, illustrandoli in maniera spesso provocatoria e senza peli sulla lingua.
In questa miscellanea così sapientemente architettata, veniamo catapultati in un mondo che ci sembra di conoscere così bene – quello dell’essere umano – eppure, pagina dopo pagina, quelle poche certezze decadono inesorabilmente, di fronte ad un’analisi elegante e verace.
L’autore, l’illustre professore Alessandro Bertirotti, con la sua penna pungente, dipinge il quadro di un’umanità spesso dilaniata tra ciò che è e ciò che vuole apparire: per natura, noi uomini siamo socievoli, portati a costruire legami duraturi e ad intessere relazioni empatiche con i nostri simili. Ma la realtà di tutti i giorni, sovente, smentisce tali caratteristiche. Forse perché l’uomo del III millennio ha edificato il suo essere più sulla sabbia, che sulla roccia; ha preferito “vendersi” a dei cliché sociali di basso profilo, invece di aderire alla sua più profonda moralità.
“Il mosaico del buon senso” ci parla della fatica di essere uomini e donne veri in contrasto alla cultura dell’”effimero”, di rispondere alle nostre più intime necessità, dando la priorità ai fondanti valori della vita.
Veniamo, così, messi davanti a questioni “spinose”, di grandissima attualità: la sessualità, le emozioni, la condotta sociale, la famiglia, la politica… tutti temi largamente dibattuti e che conosciamo bene (o almeno così ci sembra!).
Ciò che più colpisce, in questo libro tanto breve quanto intenso, è quello che lascia dopo averlo letto: appena si termina un paragrafo, il lettore si sofferma a riflettere su quelle parole; è come costretto a fare i conti con la sua visione del mondo e perfino di se stesso, a mettere in gioco le sue credenze e – perché no – a riformularle alla luce di quanto appreso. Queste preziose pagine non lasciano indifferenti. Sicuramente, si potranno incontrare punti di vista diversi, ma un pubblico attento e curioso troverà molte chiavi di lettura, interessanti e profonde.
L’autore non vuole indorare la pillola: ci trasmette quanto siano importanti i legami familiari, quanto la scuola e le istituzioni debbano collaborare affinché si crei una società consapevole ed una nuova generazione libera, ma responsabile (e noi, oggi, sappiamo quanto sia essenziale avere dei punti di riferimento forti e stabili). Ci fa comprendere quanto sia fondamentale non solo saper godere dei momenti lieti che la vita ci offre, ma anche e soprattutto saper affrontare i momenti bui e dolorosi, perché   è proprio in quei frangenti che esce il meglio di una persona, con tutta la sua forza e capacità di risollevarsi (“Ci sono sofferenze che scavano nella persona come i buchi di un flauto, e la voce dello spirito ne esce melodiosa” – V. Brancati). Ci proietta in una dimensione fatta di connessioni cerebrali e di avvertimenti dati dal nostro cervello, perché le prime avvisaglie di sentimenti positivi o negativi provengono proprio dal nostro sistema neuronale. Ci sottolinea quanto sia vero il famoso motto “l’unione fa la forza”: in un mondo che sembra andare verso l’autodistruzione, la collaborazione e l’accettazione reciproca sono le chiavi di svolta per un futuro migliore. Ci mostra come ognuno di noi sia diverso, nella sua unicità, a partire dalla dicotomia uomo/donna, ma è da queste macro-differenze che si può costruire una società sì variegata, però sempre cooperativa ed integrata con le esigenze di ciascuno.
Ed insieme a queste realtà “favorevoli”, troviamo affiancate quelle più oscure e torbide, che spesso si annidano nell’animo umano: la tendenza di alcuni individui alla violenza, allo stupro, allo sfruttamento della prostituzione o alla pedofilia… Verità scomode e dolorose, che non vorremmo mai incontrare, ma che, ahinoi, fanno parte di questa intricata umanità.
In conclusione, dopo aver dato una personale opinione, che non vuole essere esaustiva, ma solo offrire piccoli flash, affinché altri si accostino a questa lettura, mi permetto di affermare che “Il mosaico del buon senso” è uno dei libri più difficili che abbia mai letto, non tanto nel registro stilistico o nel lessico utilizzati (anzi, da questo punto di vista, l’ho trovato molto comprensibile ed alla portata di tutti, anche di chi non ha dimestichezza con l’antropologia della mente – materia per eccellenza del nostro brillante autore): è difficile perché obbliga ad interrogarsi approfonditamente su importanti tematiche. E, si sa, mettersi in gioco non è mai cosa semplice. Perché se ne può uscire “sconfitti”. Ma credo che, in questo caso, non si tratti di sconfitta, quanto piuttosto di “arricchimento”: solo un lettore dalla mente aperta, con una buona dose di umiltà e voglia di intraprendere nuovi percorsi intellettuali, può accostarsi con piacere ed interesse all’illuminante “Il mosaico della mente”.

Chiara Serreli.




mercoledì 5 marzo 2014

Sulla Psicoterapia e sulla Consulenza Filosofica

Il 1879 è un anno importante per la psicologia, perché da quel momento diventa scienza staccandosi completamente dalla filosofia ed iniziando ad utilizzare gli strumenti e soprattutto il linguaggio scientifico. Tutto ciò è stato possibile grazie a W. Wundt che fonda a Lipsia il primo laboratorio scientifico, dove analizza i processi mentali con la tecnica dei tempi di reazione.
Questo approccio venne però aspramente criticato da J.B.Watson, proprio in nome del rigore tipico delle scienze, secondo il quale i fatti di coscienza studiati da Wundt sono solo il travestimento del vecchio concetto di “anima”,  quindi privo di valore scientifico. La psicologia, secondo Watson, per dirsi scienza ed essere oggettiva deve abbandonare i concetti di “psiche” e di “mente” e attenersi solo al comportamento direttamente osservabile.
Ma Watson non sapeva quello che oggi la fisica ci dice e che cioè l’atto di osservare influisce sull’oggetto dell’osservazione; l’osservatore è un elemento attivo all’interno del processo studiato, per cui anche quell’oggettività a cui Watson pensava di essere arrivato è oggi messa in discussione da quelle stesse scienze a cui la psicologia tenta di assomigliare.
Poco dopo nasce la psicoanalisi e con essa le terapie delle sofferenze mentali attraverso il colloquio.
Il suo fondatore, S. Freud, scompose l’apparato psichico in Preconscio, Coscienza e Inconscio nella Prima Topica, e successivamente, nella Seconda Topica, in Es, Io e Super Io, ma anche questo non ebbe nulla di scientifico in quanto, ci ricorda K. Jaspers, suddividendo la psiche in strutture “non si fa scienza ma si fantastica con sembianze scientifiche in modo del tutto non scientifico”.
Se dunque è stato ed è tutt'ora problematico per la psicologia porsi come scienza, lo è altrettanto l'uso di alcuni termini come quello di Psicoterapia.
Terapia è una parola che richiama ad una tecnica che, indipendentemente da chi la applica, raggiunge il suo scopo. Questo però è adatto ad un approccio medico/scientifico, ma non alla psicologia che per sua natura non può prescindere dal soggetto che applica la tecnica, poiché è proprio lui che “fa” psicologia. Ciò inoltre crea l'opinione che sia la tecnica o la teoria di riferimento a “guarire” in qualche modo i nostri malesseri, ma non è così: quello che aiuta i nostri stati d'animo è la relazione, la possibilità di condividere e di dar voce a certe emozioni rimaste incastonate in qualche angolo perduto della nostra anima, cosa che l’uomo ha sempre saputo fin da quando Platone, nel Carmide, fa dire a Socrate che ciò che cura è l’impiego di  “certi carmi magici, che sono le parole appropriate”.  Diversamente infatti non si potrebbe capire come mai teorie e tecniche anche radicalmente diverse tra loro possano raggiungere risultati simili in termini di benessere, come documenta G.O. Gabbard.
Il parlare è dunque umano, non scientifico e la tecnica senza empatia con la psicologo è inconsistente.  V’è l’illusione che quanto più uno psicologo abbia studiato, abbia fatto analisi su di sé tanto più sia in grado di comprendere il mondo interiore dell’altro: ma la vita interiore dell’altro è insondabile dall’esterno e non la si avvicina con lo studio, ma con l’empatia, che non si può imparare in nessuna università. Chissà se forse è proprio il difficile e complesso iter per diventare psicologo che fa dimenticare questa evidenza, ribadita anche da C. G. Jung che parla ai suoi pazienti “come un semplice essere umano parla con un altro”  consapevole che nessuna emozione ci è estranea poiché ogni cosa, comprese le patologie dalla schizofrenia alla depressione, esiste già dentro ciascuno, come ricorda E. Fromm.
Se dunque la psicologia si trova nell'impossibilità di studiare scientificamente la “Psiche” come può parlare di una terapia della psiche? Ecco perché è molto ambiguo e fuorviante l'utilizzo del termine “Psicoterapia”.
Sul parlare umano si basa invece la Consulenza Filosofica, che si pone come alternativa alla Psicoterapia, a cui non interessa porsi come scienza e per questo può liberarsi da tutta quella terminologia scientifica a cui invece la psicologia deve sottostare. La Consulenza Filosofica è ben consapevole del fatto che i nostri malesseri sono storici, cioè cambiano e mutano in base al contesto storico in cui essi si manifestano e quindi cambiano e mutano in base al linguaggio usato per descriverli. Ecco perché essa può parlare dei nostri disagi non come ansia, panico, paura, ma come perdita della propria strada, come smarrimento del senso della propria vita che, ad un certo momento, può adombrare l'esistenza di ognuno. La psicologia purtroppo, accorpandosi sempre di più alle scienze e alla medicina, ha finito per dimenticare il linguaggio umano su cui essa si fonda.
E così, ciò che la psicologia ha rimosso è stato preso dalla Consulenza Filosofica che sembra non aver mai dimenticato ciò che disse uno dei padri della psicoanalisi, Carl Gustav Jung, ovvero che la psicologia deve abolirsi come scienza, perché solo abolendosi come scienza raggiunge il suo scopo scientifico.


Stefano Coletta






martedì 4 febbraio 2014

Dal "mito" alla vita

Esistono in tutti gli esseri umani due fondamentali tipi di atteggiamenti: un primo, definito mentale e un secondo definitivo comportamentale.
L'atteggiamento mentale è una disposizione della nostra mente a pensare le cose del mondo in un particolare modo, e dunque interpretare la realtà secondo quel modo specifico di vedere le cose. In seguito all'adozione di questo atteggiamento, ogni essere umano è indotto a compiere le sue esperienze nel mondo e leggerle, ossia comprenderle, attribuendo ad esse un significato personale, ma nello stesso tempo culturale.
L'atteggiamento comportamentale è anch'esso una disposizione della mente a pensare le cose della realtà, ma si riferisce prevalentemente al pensiero sulle azioni, sulle condotte da adottare per il raggiungimento dei propri scopi. Parliamo cioè di quelle azioni che ci permettono di raggiungere obiettivi, adottando la condotta necessaria.

Facciamo due esempi per meglio chiarire la differenza che esiste tra questi due tipi di atteggiamenti.
Si prenda un individuo al quale piace molto viaggiare e che viaggia quasi sempre in auto, oppure in aereo. Ogni volta chedeve programmare un viaggio, magari assieme ad altre persone, egli pensa ad organizzare gli spostamenti da un luogo ad un altro utilizzando questi due mezzi di locomozione. Poiché essi rappresentano il suo modo di muoversi nel mondo,non chiederà quasi mai ad eventuali altri partecipanti al viaggio se desiderano utilizzare l'auto, l'aereo oppure preferiscano andare in treno ed in autobus. Per lui, ossia secondo il suo atteggiamento mentale verso il concetto di viaggio, gli spostamenti si fanno con l'auto e l'aereo.
Consideriamo ora, sempre come esempio, un'altra persona che di fronte allo stesso progetto, fare un viaggio, adotti un atteggiamento comportamentale: egli chiederà, innanzi tutto e a tutte le persone coinvolte, con quali mezzi preferiscano muoversi, prima ancora di pensare alla direzione verso la quale andare. Questo è un atteggiamento comportamentale,perché deriva da un atteggiamento mentale a monte che è quello di informarsi sempre sulle condizioni di benessere nelle quali devono stare le persone nelle loro attività, e che avrà come conseguenza organizzare il viaggio in uno stato di benessere per tutti i partecipanti. Il suo atteggiamento comportamentale, si dirige dunque verso quell'azione particolare del viaggio che sta programmando.
Sulla base di queste riflessioni è evidente che i due atteggiamenti si trovano spesso assai vicini fra loro, specialmente nel funzionamento della mente nella quotidianità, e non è facile identificare, se non ad un buon livello di autoconsapevolezza, i due tipi.
Possiamo però affermare che questi due tipi di atteggiamenti fanno entrambi parte della mente di ciascuno di noi. Ogni essere umano si trova a dover prendere decisioni circa i propri scopi e condotte, attuando così le relative azioni, unitamente ad azioni che si ripetono senza che la volontà individuale abbia un ruolo effettivo ed importante. In sostanza, i nostri atteggiamenti mentali derivano dal nostro vivere assieme agli altri, in un gruppoall'interno di una cultura, e si sono sedimentati nella memoria di quel gruppo attraverso molti atti che definiamo spesso con il termine di tradizione.
Per esempio, una persona che si trova a crescere, malgrado le proprie intenzioni e volontà, in un ambiente nel quale lediverse forme di violenza sono all'ordine del giorno, al di là della propria (contraria) volontà contraria verso questi atteggiamenti, è assai difficile che possa modificare gli atteggiamenti mentali e comportamentali dell'ambiente. Può invece cambiare i propri atteggiamenti comportamentali, decidendo lui stesso di non adottare forme di relazioni basate su violenza oppure soprusi. Vi è comunque in questi casi una certa possibilità di manovra verso il positivo, se l'esperienza subita non prende il sopravvento sulla condotta positiva, autonomamente messa in atto.
Dal punto di vista prettamente socio-culturale, quando alcuni comportamenti umani vengono ripetuti nel tempo con una certa frequenza, anche se sono riprovevoli, essi vengono percepiti dal gruppo come esempi da imitare, alla pari dei miti. Questo avviene perché i processi imitativi sono assai importanti per il nostro cervello, visto che la maggior parte delle nostre azioni deriva dall'osservazione di quelle altrui. Abbiamo prima fatto un esempio di come sia possibile realizzare comportamenti che contrastano con atteggiamenti mentali presenti in un preciso ambiente, ed ora si consideri, all'interno dello stesso contesto, un altro esempio. L'acquisizione di una abilità cognitiva manifestabile, come il sapere leggere e scrivere, avviene attraverso la ripetizione di gesti ed atti con i quali si esprimono quelle abilità. Nello stesso modo apprendiamo ad essere violenti, intolleranti, aggressivi; ma se, per esempio, questi atteggiamenti mentali sono presenti in un carcere perché considerati come i più adatti all'ambiente, la conseguenza è che saranno sempre più associati al "mito". In questo modo si cominciano ad apprezzare esageratamente tutti coloro che con la loro volontà (alla base di atteggiamenti comportamentali) riescono ad ottenere cioè che desiderano, anche con la forza della disonestà. Il delinquente diventa un mito per quel gruppo sociale, un punto di riferimento nel quale identificarsi, perché è lui che detta la legge e non la legge che detta a lui i comportamenti civili da perseguire. Nei luoghi in cui la legge non giunge, vige la legge del dominio spregiudicato di se stessi, come espressione mitica di una volontà senza limiti. Questo è l'Uomo, ancora oggi e nella sua sostanza più istintuale.
Ecco perché il carcere, dove tutto è limitato e limite, dove tutto è legge ed osservazione di regolamenti, si rivive lo stesso ambiente aggressivo ancestrale nel quale il più forte veniva osannato. E l'unico modo per rieducare è proprio fare riferimento, sia dal punto di vista educativo che esistenziale, agli atteggiamenti comportamentali, con in quali il detenutopuò dimostrare la propria volontà a determinare autonomamente il proprio futuro. Quando la struttura carceraria, nelle persone che la dirigono, è particolarmente attenta a stabilire un patto di solidarietà verso l'espressione della volontà personale al miglioramento di se stessi, il mito negativo del forte che vince e del duro che ottiene, si sgretola lentamente.