lunedì 2 dicembre 2013

La nostra resurrezione

La rubrica di Affari "E l’antropologo della mente?", a cura di Alessandro Bertirotti

Venerdì, 29 novembre 2013 




Esiste un modo universale grazie al quale qualsiasi persona in questo mondo, indipendentemente dall'ambiente in cui vive ed è cresciuto, recepisce i dati, le esperienze e le situazioni della realtà. In sostanza, grazie alle teorie, del secolo scorso e di Jean Piaget, unitamente alle scoperte recenti delle  neuroscienze, ora noi sappiamo che la nostra mente vive e si manifesta quando ha la possibilità di porsi in relazione con l'esterno.
La relazione primaria viene sperimentata, quasi del tutto inconsciamente, durante i nove mesi di gestazione, grazie ai quali il feto si configura lentamente come un essere vivente relazionale, ossia formato sulla base di rapporti biunivoci. Tale relazione si configura, innanzi tutto, nel rapporto madre-figlio. E sarà proprio questo primo rapporto biunivoco a determinare lo stile cognitivo di tutta la vita dell'individuo, e anche la consapevolezza della propria identità sarà il frutto di questo rapporto.
In sostanza, la vita di ogni essere umano, come di altri esseri viventi non umani, sarà il frutto del funzionamento di una mente relazionale, in grado di giungere agli alti livelli di specializzazione dei compiti grazie al continuo rispecchiamento di sé stessi con gli altri.
Questo rispecchiamento è detto anche assimilazione, per mezzo della quale ogni individuo si presta, all'interno dell'arco di vita cui è destinato, a stabilire una relazione duratura, affettiva e cognitiva con l'ambiente esterno. In questo processo, la volontà umana di conoscere si pone in secondo piano, perché quello che sostanzialmente si verifica è una assimilazione nolente, data dal fatto di trovarsi a vivere all'interno di stimoli che richiedono risposte spesso automatiche, definite riflessi. Prendere coscienza, tanto dei riflessi quanto dei propri desideri, bisogni ed obiettivi, è un passo successivo e che avviene gradatamente nel corso dell'evoluzione personale, anche attraverso crisi e dolori personali.
Nello stesso tempo è importante ricordare che il concetto scientifico di assimilazione, così come è introdotto dal Piaget, si riferisce esattamente alla funzione di modificare (integrare) l’alimento (empiricamente: il “cibo del pensiero”) incorporato per mezzo dell’interazione con l’ambiente, e con questo di conservare la struttura degli schemi operativi.
Saranno proprio queste crisi, dolori e "fermate evolutive" a determinare la nascita del sentimento di identità personale, visto che in quei momenti la nostra mente è costretta a rallentare il proprio funzionamento rivolto alla conquista degli spazi esterni per concentrarsi su se stessa, ossia sulla propria identità. È il periodo dell'adolescenza, all'interno del quale le domande sul proprio futuro, il proprio ruolo e compito all'interno della vita fioccano numerose, spesso senza risposte soddisfacenti, lasciando i giovani adulti delusi e perplessi.
È un momento evolutivo importante, perché in esso si realizza quell'accomodamento della mente al mondo esterno, confrontando i dati assimilati per integrare negli schemi esistenti le nuove informazioni ricevute dall’ambiente, in modo da modificarli senza distruggerli. Durante questo periodo, concentrato anch'esso nell'adolescenza in modo più critico, anche se presente ad ogni stadio evolutivo dell'apprendimento, le domande su se stessi sono costanti, specialmente quelle che riconducono la propria identità al mondo esterno. Ecco che troviamo così adolescenti che credono di poter cambiare il mondo con la loro volontà esclusiva, con le loro singole forze senza dover chiedere aiuto a nessuno, anche se il gruppo di appartenenza continua ad essere il luogo privilegiato nel quale rimanere coccolati.
Dopo questo periodo, entrando nell'età adulta, si opera quell'equilibrio necessario fra i dati assimilati e quelli accomodati, grazie al quale ogni persona è nelle condizioni di valutare le situazioni esistenziali adatte per esprimere se stesso, oppure tacerlo sapendo attendere il momento propizio per farlo successivamente.
È un gioco che impone a tutti noi di valutare tanto i tempi quanto gli spazi di realizzazione personale, che sono sempre mutevoli e stimolano la nostra mente a completare il proprio funzionamento cognitivo sulla base delle situazioni più o meno propizie.
Tutto questo discorso ci serve per la valutazione finale che vado a delineare: quale potrebbe essere la causa oggi di comportamenti apparenti di adolescenti poco reattivi alla necessità di andare oltre il visibile, oltre i dati concreti della vita quotidiana? Come fa un giovane ad avere speranza nel futuro quando il presente è così disastroso?
Dal mio punto di vista, la causa risiede in noi quarantenni o cinquantenni, che abbiamo abbandonato la stessa capacità da molti anni, credendo di essere giunti al punto di non ritorno, dove tutto il possibile è accaduto e le prospettive del futuro sono sempre più fievoli. In questo modo, i nostri figliassimilano la staticità degli adulti, la accomodano alle proprie speranze e ne ottengono un equilibrio all'interno del quale la meta da raggiungere si trova quasi sempre in un'altra nazione.
Ecco a cosa serve la mente: a sviluppare in ognuno di noi, senza sosta e sino alla fine, la convinzione che la nostra curiosità verso il mondo e il completamento della conoscenza verso se stessi non termina che con la morte fisica.
Penso che questo sia il concetto scientifico che si nasconde dietro l'idea di una risurrezioneoltreogni convinzione confessionale.

L'AUTORE - Alessandro Bertirotti è nato nel 1964. Si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l'Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia Generale presso la Facoltà di Architettura dell'Università degli Studi di Genova e Psicologia del rischio presso la Facoltà di Ingegneria di Palermo. Il suo sito è www.alessandrobertirotti.it

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